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Issue 5/2020

Il caso: le peripezie di un cittadino albanese per ricongiungersi con la moglie italiana. Trappole e paradossi di un diritto sancito dall’Unione europea ma ostacolato dall’Italia.

La questione giuridica: la direttiva 2004/38/CE, che garantisce il diritto dei familiari dei cittadini europei di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio dell’Unione, è stata recepita dal decreto legislativo 30/2007[1] con lacune e incongruenze che rendono incerta la condizione di questa categoria di stranieri.

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Nel caso che sto per raccontare è Patrizia ad avermi conferito l’incarico di aiutarla a fare rientrare il marito bloccato in Albania per una pregressa espulsione, mai impugnata e pertanto diventata definitiva.

Patrizia è italiana mentre Aldin è albanese. Sono due trentenni e si sono conosciuti in Italia. Lei educatrice, lui operaio.

Dopo anni di soggiorno, il permesso di Aldin non era stato rinnovato dalla questura per insufficienza di reddito e lui non aveva fatto ricorso[2], rimanendo in Italia e continuando a lavorare in nero nella speranza di essere, prima o poi, nuovamente regolarizzato[3].

A seguito di un controllo casuale a Roma, Aldin era stato raggiunto da un decreto di espulsione, basato sulla circostanza di essersi trattenuto nel nostro paese dopo il diniego del rinnovo del permesso[4].

Intanto la relazione tra Patrizia e Aldin proseguiva. A un certo punto lui decideva di rientrare in Albania dove Patrizia lo aveva raggiunto per sposarlo, nell’agosto 2017.

Il matrimonio viene regolarmente trascritto dalla nostra ambasciata e lui vorrebbe tornare in Italia con la coniuge, ma non può attraversare la frontiera in presenza del divieto quinquennale di reingresso conseguito alla sua vecchia espulsione ed ancora in vigore[5].

La nuova condizione giuridica di Aldin, cioè quella di coniuge di cittadina italiana, dovrebbe essere garantita dalla direttiva 2004/38/CE, attuata con il decreto legislativo 30/2007. Il maldestro recepimento ad opera del nostro legislatore ne rende però difficoltosa l’applicazione[6].

Nei casi come quello di Aldin, in assenza di una norma chiara sul punto, la prassi prevede che, per il tramite della nostra rappresentanza diplomatico-consolare si debba chiedere al Ministero dell’Interno una speciale autorizzazione al reingresso in deroga al divieto[7].

Gli albanesi godono da diversi anni di una parziale libera circolazione in Europa, da quando cioè non sono più soggetti al visto per turismo, ma se una persona è stata inserita nel sistema Schengen a seguito di un’espulsione le è impedito l’attraversamento delle frontiere esterne dell’Unione[8].

Il paradosso è che per un cittadino italiano è più difficile ricongiungere il proprio coniuge extracomunitario precedentemente espulso rispetto a quanto previsto per il ricongiungimento tra coniugi entrambi extracomunitari dove esiste una norma esplicita che fa decadere in automatico l’espulsione[9].

Sebbene Patrizia non abbia l’onere di attivare una vera e propria procedura di ricongiungimento familiare in favore di Aldin, il rientro di quest’ultimo è pesantemente ostacolato dall’esistenza della segnalazione Schengen.

Il paradosso è che per un cittadino italiano è più difficile ricongiungere il proprio coniuge extracomunitario precedentemente espulso rispetto a quanto previsto per il ricongiungimento tra coniugi entrambi extracomunitari dove esiste una norma esplicita che fa decadere in automatico l’espulsione

È da dopo il matrimonio che Aldin insiste con la nostra autorità consolare a Tirana di avviare la procedura, ma solo ai primi di ottobre del 2017 gli viene comunicato informalmente che l’istanza di reingresso a seguito di matrimonio con cittadina italiana è stata inoltrata al Ministero dell’interno.

A dicembre i coniugi vorrebbero ricongiungersi per trascorrere finalmente insieme il Natale. Ma niente da fare.

L’Ambasciata italiana a Tirana non risponde, né ai diretti interessati né a me quale loro legale incaricato a questo punto della vicenda da Patrizia, che non si raccapezza, né si rassegna, alla lontananza del marito.

Scrivo all’Ufficio del Ministero dell’Interno che si occupa del registro dei nominativi inseriti nel S.I.S., la Divisione Nazionale S.I.S., la quale a stretto giro conferma che Aldin risulta ancora inserito come persona inammissibile nello spazio Schengen[10].

L’Ambasciata italiana a Tirana non risponde, né ai diretti interessati né a me quale loro legale incaricato a questo punto della vicenda da Patrizia, che non si raccapezza, né si rassegna, alla lontananza del marito

Inoltro nuovamente per posta elettronica certificata l’istanza volta a ottenere l’autorizzazione al reingresso (presupposto della cancellazione della segnalazione nel S.I.S.) alla Divisione Nazionale S.I.S. che, a sua volta, la smista all’ufficio competente, quello della Polizia delle frontiere presso il Ministero dell’interno. Da questo ufficio dipende l’adozione del provvedimento che dovrà poi essere trasmesso alla Questura di Roma, cioè autorità che ha operato materialmente l’inserimento di Aldin in banca dati e deputata alla materiale cancellazione della segnalazione.

Come nel più classico gioco dell’oca, siamo alla casella di partenza.

Dopo avere scritto una nuova lettera all’ufficio della Polizia delle frontiere, rappresentando l’urgenza della situazione, non ricevo alcuna risposta e così inizio a chiamare gli uffici romani.

Tra centralino, lunghe attese e continui rinvii da un interno all’altro, i giorni passano e l’ansia di Patrizia e Aldin cresce.

Finalmente intercetto un funzionario che mi dice che la pratica è in istruttoria e di richiamare da lì a un mese.

Trascorso il mese richiamo, ma a quel punto la risposta è che il mio non è certo l’unico caso; di non insistere perché il decreto autorizzatorio è alla firma del dirigente e che, infine, sarà siglato anche dal Ministro dell’interno.

Ribadisco che il diritto all’unità familiare della cittadina italiana non può essere ritardato in modo così arbitrario.

Durante questa inutile attesa ricevo spesso lunghi messaggi scritti e vocali per whatsapp da Aldin, che mi racconta esasperato del trattamento poco disponibile da parte della nostra autorità consolare ogni volta che vi si reca per chiedere informazioni sulla sua pratica.

Intanto io scopro che esiste un decreto dello stesso Ministero dell’interno che stabilisce, per questo procedimento di autorizzazione, un preciso termine di conclusione di centoventi giorni dal suo inizio[11].

Nel caso di Aldin il tempo è decisamente scaduto e così preparo una diffida ad adempiere. Si tratta di uno strumento che intima all’amministrazione, nelle persone del dirigente responsabile e del funzionario istruttore, di concludere il procedimento entro quindici giorni dalla ricezione della diffida chiamando in causa la loro diretta responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile[12].

Il quattordicesimo giorno dalla notifica, il Ministro dell’Interno autorizza il rientro di Aldin.

Ma le sue disavventure non sono finite perché dopo la consegna del decreto da parte dell’ambasciata, dove si era subito precipitato, viene bloccato dalla polizia di frontiera albanese che sostiene che l’autorizzazione ministeriale italiana debba essere legalizzata da un notaio locale[13].

Così Aldin, infuriato per avere perso il volo già pagato, corre dal notaio con il documento timbrato e, finalmente, prende l’ultimo aereo della giornata per Malpensa.

Patrizia parte da Milano e dopo mezzanotte è lì che lo aspetta.

Ma anche a Malpensa, come in un girone infernale, Aldin viene nuovamente bloccato. Il suo nominativo risulta ancora nella banca dati, gli dice un agente al banco dei passaporti. A nulla valgono l’esibizione dell’autorizzazione ministeriale e le rimostranze di Aldin. Sarà il funzionario responsabile a decidere, al rientro in servizio.

Ma anche a Malpensa, come in un girone infernale, Aldin viene nuovamente bloccato. Il suo nominativo risulta ancora nella banca dati, gli dice un agente al banco dei passaporti. A nulla valgono l’esibizione dell’autorizzazione ministeriale e le rimostranze di Aldin. Sarà il funzionario responsabile a decidere, al rientro in servizio

Lo schermo del mio cellulare si illumina in piena notte con la richiesta di aiuto di Aldin. Alle sette sono attaccato al telefono per parlare con il responsabile della polizia di frontiera. Ci vogliono alcune ore prima che riconoscano l’errore: la Questura di Roma non aveva fisicamente cancellato il file. Ora hanno provveduto.

Finalmente, dopo le innumerevoli sollecitazioni, la vicenda si sblocca, e l’apertura delle porte degli arrivi consente ad Aldin di riabbracciare la moglie.

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[1] D.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30, Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.

[2] La disciplina in materia di permessi di soggiorno è contenuta nel d.lgs. 286/98 (testo unico immigrazione, di seguito t.u.i.), più volte modificato dalla sua entrata in vigore. Si vedano in particolare gli articoli 5 e 6. Il permesso di soggiorno per lavoro è rilasciato a chi ha fatto ingresso per lavoro (subordinato, anche stagionale, o autonomo) ed è rinnovato quando sussistono i requisiti richiesti per l’ingresso, tra cui l’avere la disponibilità di mezzi di sussistenza sufficienti per la durata del soggiorno (art. 4, c. 3, t.u.i.). La perdita del posto di lavoro non determina l’immediata perdita del permesso di soggiorno poiché, secondo l’art. 22, c. 11, t.u.i., il lavoratore straniero può essere iscritto nelle liste di collocamento per il periodo di residua validità del permesso di soggiorno e, comunque, per un periodo non inferiore a un anno ovvero per tutto il periodo di durata della prestazione di sostegno al reddito percepita dal lavoratore straniero qualora superiore. I parametri relativi alla quantificazione dei mezzi di sussistenza sono quelli previsti dall’art. 29, c. 3, lett. b), t.u.i. (reddito minimo annuo derivante da fonti lecite non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale – per il 2020 è fissato in €. 5.977, 79 –). In caso di rifiuto di rinnovo da parte della Questura dovuto alla contestazione del non possesso di risorse sufficienti, come nel caso di Aldin, il relativo provvedimento dovrà essere impugnato davanti al Tribunale amministrativo regionale (competente quello del luogo ove a sede l’autorità che lo ha emesso) entro sessanta giorni dalla notifica (si veda art. 5, c. 10 t.u.i.).

[3] Moltissimi stranieri residenti in Italia sono entrati in possesso del permesso di soggiorno per lavoro attraverso una delle tante leggi che dal 1986 al 2012 hanno varato le c.d. “sanatorie” o “regolarizzazioni”; e cioè norme speciali che hanno consentito ai lavoratori migranti, irregolari sul territorio da prima di una certa data, e ai loro datori di lavoro di emergere dalla condizione di irregolarità. Si veda il mio recente intervento Migranti, aumentano i lavoratori irregolari. Ma una soluzione per uscirne c’è, su Il fatto quotidiano on line, 4 dicembre 2019.

[4] La disciplina delle espulsioni è contenuta nel t.u.i. dall’art. 13 all’art. 17. Le espulsioni si distinguono in amministrative e giudiziarie. Le prime sono di competenza del Ministro dell’interno per casi riguardanti la sicurezza nazionale o per gravi motivi di ordine pubblico ma la maggioranza delle espulsioni è decretata dal Prefetto, nelle ipotesi tassative previste dall’art. 13, c. 2, t.u.i., tra le quali rientra il caso di Aldin, il quale si è trattenuto in Italia dopo che il permesso di soggiorno gli era stato rifiutato (lett. b). Le principali conseguenze dell’espulsione consistono nell’applicazione di un divieto di reingresso sia in Italia (art. 13, c. 14, t.u.i.) sia in Unione europea (e negli Stati non membri cui si applica l’acquis di Schengen) a causa della registrazione di detto divieto nel sistema di informazione Schengen, di cui al regolamento (CE) n. 1987/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20-12-2006 (art. 13, c. 14bis, t.u.i.). La durata del divieto di reingresso opera per un periodo non inferiore a tre anni e non superiore a cinque anni, a meno che consegua ad un’espulsione comminata ai sensi dell’art. 13, c. 1 (sicurezza nazionale) o c. 2, lett. c) (motivi di pericolosità sociale), nel qual caso può essere superiore a cinque anni.

[5] L’esistenza della segnalazione nel S.I.S. (sistema d’informazione Schengen) impedisce al cittadino extracomunitario l’attraversamento delle frontiere esterne della Ue. Il matrimonio con la cittadina italiana non fa decadere in automatico in capo a Aldin il divieto di reingresso e la conseguente cancellazione della segnalazione di inammissibilità dovuta alla pregressa espulsione.

[6] La direttiva sui familiari extracomunitari di cittadini europei, e dunque, italiani (in questo caso Aldin), dovrebbe garantire con facilità il loro ingresso e soggiorno, ed è la chiave di volta del caso che sto raccontando. In Italia è stata attuata con d.lgs. 30/2007. La regolamentazione di aspetti fondamentali circa la garanzia dell’ingresso e del soggiorno di questi cittadini imparentati con i cittadini italiani è omessa dalla normativa nazionale di attuazione e nulla si prevede per le situazioni come quelle di Aldin, la cui pregressa espulsione finisce per essere di ostacolo al riconoscimento del suo (e di Patrizia) diritto al ricongiungimento familiare.

[7] In assenza di norme suppliscono circolari ministeriali e prassi degli uffici, anche su aspetti rilevanti, spesso in violazione dell’art. 10, c. 2, della Costituzione italiana, secondo cui «la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge (..)» (c.d. riserva di legge). Qui l’autorità consolare ha indirizzato al Ministero dell’interno un’istanza di revoca dell’espulsione a firma del coniuge, ma i tempi di risposta sono sempre molto lunghi e ciò determina di per sé una grave violazione del diritto all’unità familiare garantito dalla direttiva 2004/387/CE, nel rispetto dell’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (art. 8). In altre parole: pur non essendo soggetto ad un visto di ingresso in qualità di cittadino albanese (v. infra) Aldin deve farsi cancellare la segnalazione Schengen per attraversare le frontiere esterne della Ue e ricongiungersi con la moglie.

[8] L’8 novembre 2010 il Consiglio dei Ministri degli Interni della Ue ha approvato all’unanimità la liberalizzazione della circolazione in Europa dei cittadini provenienti dalla Bosnia Erzegovina e dall’Albania. Dal dicembre 2010 i cittadini di questi paesi entrano nei paesi Schengen con passaporto biometrico e possono soggiornare per motivi di turismo per un massimo di novanta giorni a semestre.

[9] Secondo l’art. 13, c. 13, t.u.i., lo straniero già espulso ai sensi del comma 2, lettera a) e b) – ingresso o soggiorno irregolari – e per il quale è stato autorizzato il ricongiungimento familiare (in base all’art. 29 t.u.i.) non è necessaria la speciale autorizzazione al reingresso prevista nella normalità dei casi. E’ evidente l’irragionevole disparità di trattamento tra “ricongiungibili espulsi”, nel senso che con riferimento ai familiari degli europei se da un lato non si richiede l’avvio della procedura di ricongiungimento familiare prevista dall’art. 29 (necessaria quando tutti i soggetti sono extracomunitari) dall’altro si obbliga il familiare extracomunitario espulso ad essere ‘autorizzato al rientrò dal Ministero dell’interno.

[10] Secondo il Regolamento (CE) 1987/2006 (c.d. regolamento S.I.S. II) ogni persona può esercitare il diritto di accesso al S.I.S., direttamente o per delega, sia per essere informata circa l’esistenza di una segnalazione vigente a suo carico, sia al fine di chiederne la rettifica o la cancellazione in presenza dei presupposti. L’autorità italiana deputata a tale scopo è la Divisione nazionale S.I.S. presso il Ministero dell’Interno, che può essere interpellata nelle modalità previste sul sito della Polizia di Stato. Si tratta di un accesso c.d. diretto all’autorità che è anche deputata all’inserimento dei dati nella banca dati (sono infatti le questure a operare fisicamente l’inserimento). Nel caso la risposta non sia ritenuta soddisfacente l’interessato può rivolgersi al Garante per la protezione dei dati personali.

[11] D.M. Interno del 18 aprile 2000 n. 142 – Tab. A, che fissa in 120 giorni il termine finale per il procedimento relativo all’autorizzazione al rientro di straniero espulso. Ritengo che tale termine non dovrebbe valere per i familiari di cittadini italiani, il cui reingresso deve essere molto più veloce per le ragioni esposte.

[12] Mutuata dall’art. 1454 del Codice Civile, può essere utilizzata anche nei confronti della Pubblica Amministrazione a fronte dell’inerzia di quest’ultima. A seguito della riforma del 2005 il silenzio dell’amministrazione può essere impugnato anche senza previa diffida. Nel caso di Aldin e Patrizia ciò avrebbe allungato ancora i tempi. L’obiettivo era di farlo rientrare al più presto.

[13] Non mi è per nulla chiaro perché la polizia di frontiera albanese abbia preteso un tale adempimento posto che la questione del reingresso di Aldin riguardava le frontiere esterne della Ue e che a quel punto Aldin aveva tutte le carte in regola per attraversarle.

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