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Guarda il video dell’intervista a Joesph LeDoux, effettuata il 29 maggio 2020

Scarica qui la trascrizione dell’intervista

Fascicolo 6/2020

Pubblichiamo qui il testo della riflessione di Paola Emilia Cicerone, «LeDoux: “La scienza ci può aiutare a gestire la complessità».

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«Il compito della scienza? Farci capire cosa sappiamo e cosa ancora non sappiamo, su quali terreni possiamo muoverci con certezza e su quali invece è raccomandabile la cautela. Particolarmente quando si tratta di temi complessi come la coscienza»: ce lo ricorda nell’intervista video che ha voluto rilasciarci Joseph LeDoux, neuroscienziato e direttore del Center for the Neuroscience of Fear and Anxiety di New York.

Un’autorità negli studi sulle emozioni e sui meccanismi della memoria, e un divulgatore noto al grande pubblico per saggi di successo come Il Se sinaptico (Raffaello Cortina 2002) o Ansia come il cervello ci aiuta a capirla (Raffaello Cortina 2015). Ma anche per la sua musica, visto che dal 2006 ha creato con alcuni colleghi ricercatori una rock band ribattezzata The Amygdaloids,  le cui canzoni spesso affrontano gli stessi temi su cui vertono le sue ricerche, tra  cui l’esistenza o meno del libero arbitrio, tema affrontato in  How free is your will, ma anche in un’intervista video con il suo maestro, lo scienziato di origine italiana Michael Gazzaniga. Noto ai non addetti ai lavori soprattutto per le sue ricerche sui pazienti split brain, quelli che a seguito di una separazione chirurgica dei due emisferi cerebrali sembrano possedere due coscienze distinte.

Il compito della scienza? Farci capire cosa sappiamo e cosa ancora non sappiamo, su quali terreni possiamo muoverci con certezza e su quali invece è raccomandabile la cautela

Joseph LeDoux

La complessità che si cela di fronte all’idea apparentemente univoca di coscienza è un tema che torna negli studi di LeDoux e nelle riflessioni che ci ha proposto, a partire dai diversi modelli di reazione al pericolo o ad altri stimoli.  «Esistono», spiega lo scienziato, «reazioni automatiche – facciamo un salto indietro se mettiamo il piede su qualcosa di appuntito – o reazioni istintive come il cosiddetto freezing, una sorta di paralisi che è una delle possibili reazioni al pericolo». Ma anche reazioni apprese in base alle conseguenze di quanto fatto in precedenza – torniamo in un ristorante in cui abbiamo mangiato bene – abitudini come quella di accenderci una sigaretta, «oppure azioni che facciamo seguendo un modello mentale che ci siamo costruiti», prosegue LeDoux, «un po’ come succede quando guidiamo seguendo il navigatore, o ripetendo a mente le istruzioni di qualcuno che ci ha detto di girare a destra e poi a sinistra».

Anche le emozioni che proviamo, d’altronde, sono una combinazione di reazione fisiologica e di consapevolezza: «diciamo per esempio di aver paura della pandemia, ma in realtà la paura è generata da qualcosa che vediamo, in questo caso si tratta piuttosto di ansia, di timore che avvenga qualcosa che speriamo di evitare», precisa LeDoux, che al tema del pericolo e della sua importanza per la nostra evoluzione ha dedicato parte del suo ultimo saggio The deep history of ourselves (Viking Press 2019).

La complessità che si cela di fronte all’idea apparentemente univoca di coscienza è un tema che torna negli studi di LeDoux […]. Anche le emozioni che proviamo, d’altronde, sono una combinazione di reazione fisiologica e di consapevolezza

«Tutti gli organismi viventi reagiscono di fronte al pericolo, gli animali, le piante, perfino i batteri», spiega il neuroscienziato. «Ma a essere universale è questa reazione, non la paura». Che non è una reazione istintiva ma l’esperienza cosciente del pericolo, «una costruzione personale che varia a seconda della nostra esperienza, della cultura, perfino della lingua che parliamo».

Il punto è, quante delle nostre azioni sono davvero consapevoli?  E in che modo possiamo riconoscerle? Un tema importante per la scienza, ma anche per la legge.  Ci sono casi in cui ad agire siamo noi ma non la nostra mente cosciente: «la legge ci tratta come se fossimo una cosa sola, e nella maggior parte dei casi è così», afferma LeDoux. Grazie alla nostra coscienza, la sola entità nella storia dell’evoluzione che sia in grado, tra l’altro, di andare contro il bene dell’organismo che la ospita togliendosi la vita – qualcosa che nessun animale fa – o sacrificandosi per un obiettivo considerato valido.

Il punto è, quante delle nostre azioni sono davvero consapevoli?  E in che modo possiamo riconoscerle? Un tema importante per la scienza, ma anche per la legge.  Ci sono casi in cui ad agire siamo noi ma non la nostra mente cosciente: «la legge ci tratta come se fossimo una cosa sola»

«È ancora la mente cosciente che ci permette di creare, di sviluppare progetti, di esprimere nobili sentimenti. Ma anche di manifestare avidità, o di preoccuparci perché, ancora una volta, siamo l’unica specie che può proiettarsi nel futuro», osserva il neuroscienziato. E quando pianifichiamo le nostre azioni, o magari progettiamo un delitto, la responsabilità della nostra mente cosciente sembra indiscutibile.

Ma LeDoux non è convinto: «le cose sono più complicate di così», spiega, «perché ogni pensiero che affiora alla coscienza si basa almeno in parte su contenuti non coscienti».

«Le cose sono più complicate di così, perché ogni pensiero che affiora alla coscienza si basa almeno in parte su contenuti non coscienti»

E non è facile definire la responsabilità, perché ci sono azioni indiscutibilmente premeditate, ma ce ne sono altre in cui l’azione cosciente è solo l’ultima fase di un processo che si è sviluppato in modo inconscio, «un po’come succede quando scriviamo, e le parole sembrano affiorare spontaneamente».

Quali aspetti dobbiamo prendere in considerazione, quindi, quando giudichiamo un essere umano per le sue azioni?

«La mente consapevole, oppure il livello che precede immediatamente la coscienza, o ancora quell’insieme di abitudini, passioni e idiosincrasie che magari non affioreranno mai a livello cosciente ma comunque ci influenzano?». LeDoux non fornisce una risposta ma lancia un segnale importante. «Pensiamo ad esempio», prosegue, «a quanto conta il contesto se ci danno una parola da completare: poniamo di avere la parola –urse, cui manca la prima lettera: se abbiamo davanti la foto di un ospedale, penseremo automaticamente a nurse, infermiera, se vediamo del denaro a purse, borsellino». Allo stesso modo è possibile che un‘idea, un’immagine si associno a uno stimolo – ad esempio la presenza di una persona che non ci piace – e questo porti il nostro cervello a farci compiere un’azione violenta: «ma quanto della nostra mente cosciente c’è in quell’azione?», chiede LeDoux.

Quali aspetti dobbiamo prendere in considerazione, quindi, quando giudichiamo un essere umano per le sue azioni? «La mente consapevole, oppure il livello che precede immediatamente la coscienza, o ancora quell’insieme di abitudini, passioni e idiosincrasie che magari non affioreranno mai a livello cosciente ma comunque ci influenzano?»

La scienza non ha risposte definitive, «ma stiamo cominciando a capire la complessità di questi temi», prosegue il neuroscienziato. «E sì, penso che in ambito giuridico questo possa rendere le cose più difficili: se non capiamo esattamente perché una persona compie un determinato atto, l’idea di condannarlo sembra quasi criminale».

E non basta: sappiamo, ricorda LeDoux rifacendosi al colloquio con Gazzaniga, di non avere alcuna garanzia che una punizione particolarmente severa aiuti a prevenire nuovi reati. «Anzi, dagli studi sulla psicologia infantile emerge che una punizione troppo severa, non equilibrata da un rinforzo positivo, genera un senso d’impotenza controproducente», aggiunge, «si suppone che gli adulti siamo più responsabili dei bambini, certo. Ma anche in questo caso, pensiamo per esempio alla condizione di un detenuto che esce dal carcere, il senso di impotenza non aiuta certamente a cambiare, o migliorare».

La scienza non ha risposte definitive […]. «Penso che in ambito giuridico questo possa rendere le cose più difficili: se non capiamo esattamente perché una persona compie un determinato atto, l’idea di condannarlo sembra quasi criminale»

 

Alla fine, conclude LeDoux, «noi siamo semplicemente il prodotto dei nostri geni, e della nostra esperienza». Non nel senso che i geni decidano del nostro comportamento – «non esiste un gene che ci possa farci fare qualcosa» – ma perché sono loro a definire la struttura di base del nostro cervello, che sarà poi modificata dalle esperienze vissute: «per questo è importante riconoscere che non siamo tutti uguali, e che alcune persone hanno bisogno di più aiuto di altre perché non hanno avuto le stesse opportunità», ricorda LeDoux.

Ma se la scienza può aiutarci a capire, secondo LeDoux non è ancora il momento di usare il neuroimaging nelle aule di tribunale: «le neuroscienze possono aiutarci a capire come funziona il cervello, ma certamente non ci possono dire se un sospettato di omicidio sia colpevole o innocente», conclude. «Ne sappiamo troppo poco, e quel poco è abbastanza da metterci nei guai».

«Noi siamo semplicemente il prodotto dei nostri geni, e della nostra esperienza […] per questo è importante riconoscere che non siamo tutti uguali, e che alcune persone hanno bisogno di più aiuto di altre perché non hanno avuto le stesse opportunità», ricorda LeDoux.

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