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Fascicolo 4/2019

Abstract. Il nostro cervello muta, cambia ogni giorno, ogni ora, rendendoci sempre più efficienti alle richieste ambientali. Per poterlo fare, però, deve utilizzare un particolare meccanismo neurobiologico chiamato plasticità neurale. In natura, la plasticità si manifesta, però, con due particolari facce, tra loro contrapposte: la versione adattiva, che conduce a un funzionale adattamento all’ambiente esterno (qualsiasi esso sia), e la versione maladattiva, che produce una dannosa e disfunzionale attività cerebrale. Nel presente contributo sarà analizzato il funzionamento di questi due fondamentali meccanismi e si vedrà altresì come un altro fenomeno naturale, quale il dolore, possa rivestire un ruolo parimenti fondamentale nel processo fisiologico di apprendimento.

 

SOMMARIO: 1. L’essere umano e il suo ambiente. – 1.1. Plasticità neurale: comportamento adattivo versus maladattativo. – 1.2. Il ruolo dello stress nella plasticità cerebrale: No stress? No plasticity. – 1.3. Il ruolo del dolore nella plasticità cerebrale: soffrire aiuta? – 2. Prime conclusioni (e un’anticipazione).

1. L’essere umano e il suo ambiente.

Come afferma David Brooks: «l’essere umano non è un animale razionale e individualista, al contrario, è un animale sociale, definito dalle relazioni con gli altri e legato ai suoi simili»[1]. Dall’altra parte, però, questo ancestrale bisogno di socializzazione si scontra con il più profondo principio della natura umana: il disperato bisogno di essere apprezzati; come ci ricorda il grande psicologo William James[2]. Questa dinamica e contrastante relazione tra il bisogno di stare con gli altri e quello di essere apprezzati deve però fare i conti con le leggi con cui l’essere umano ha disegnato il funzionamento della società. Regole che cambiano velocemente, così come cambiano e si evolvono le nostre abitudini e tradizioni. Regole con cui, molte volte, ognuno di noi si è scontrato nella vita. Regole che ci possono costringere, restringere o schiacciare.

In mezzo a queste forti correnti si muove l’essere umano che interagisce con l’ambiente esterno a seconda del suo particolare carattere, o per meglio dire, della sua personalità. Le nostre abitudini, i nostri stili di comportamento fanno parte di quel monolite che gli psicologi chiamano “fattori di personalità”[3]. Si tratta di una serie di grattacieli costruiti su un’enorme quantità di diversi pensieri/idee/modi di sentire e di agire, che sono stati ripetuti e solidificati nel tempo e che hanno preso forma e funzione grazie al feedback (positivo o negativo) ricevuto dall’ambiente esterno.

 

 1.1. Plasticità neurale: comportamento adattivo versus maladattativo.

Lo scontro tra le regole della società, i feedback provenienti dall’ambiente esterno e i propri bisogni produce quel dinamico fenomeno chiamato plasticità neurale. Stiamo parlando di cambiamenti nella struttura cellulare che avvengono ogni giorno su migliaia di popolazioni neurali. Biologicamente parlando, vengono continuamente prodotte:

a) nuove sinapsi (sinaptogenesi);

b) nuovi vasi sanguigni per alimentare le nuove popolazioni di materia grigia cerebrale (angiogenesi);

c) nuove cellule di sostentamento dei neuroni (gliogenesi). Tutta questa iperproduttività cellulare serve per dare nuova forma ai neuroni e, quindi, ai nostri pensieri (v. Figura 1)[4].

Figura 1: Fenomeni di plasticità neurale. La nascita di una nuova sinapsi che lega due neuroni, permettendo, quindi, lo sviluppo di nuovi sistemi di elaborazione dei dati provenienti dal mondo esterno.

Nel percorso di interfacciamento con il mondo esterno, l’essere umano può avere solo due fondamentali modalità di interazione: una modalità adattativa o una modalità maladattiva. Nel primo caso, i nostri comportamenti/atteggiamenti verranno rinforzati e premiati dall’ambiente esterno, risultando quindi funzionali al nostro processo di adattamento. Nel secondo caso, invece, quello del comportamento maladattivo, gli atteggiamenti/risposte di un individuo saranno poco compatibili con l’ambiente esterno e produrranno, a loro volta, un effetto “tossico” sulla salute e sulla psiche dell’individuo.

Il concetto di maladattivo in neurobiologia è più legato all’ambito medico-patologico. Si parla infatti di plasticità maladattiva quando si verifica un’alterazione nel neurosviluppo durante la vita intrauterinale, che può portare il bambino a sviluppare fenomeni di epilessia causati da una iperproduzione di materia grigia in particolari regioni cerebrali[5]. Il termine plasticità maladattiva viene inoltre usato per descrivere le conseguenze a livello cerebrale dell’uso massivo e cronico di farmaci[6], i quali possono produrre fenomeni di aumento di materia grigia incontrollata. Infine, si usa questo termine per spiegare quello che accade nel caso di alcune rare malattie, come la distonia del musicista: una malattia neurologica caratterizzata dal blocco muscolare di mani e polsi dovuti all’eccessivo e ossessivo allenamento da parte del musicista[7]. Il paziente, ad un esame di risonanza magnetica, mostrerà un innaturale aumento di materia grigia cerebrale, di poco superiore a quella raggiunta da un super-esperto che si allena al pianoforte da molti anni.

In ogni caso, buono e cattivo che sia, il cervello muta di forma e la struttura si deforma per fare spazio a nuovi apprendimenti o per gestire eccessive stimolazioni che arrivano dall’esterno.

Plasticità neurale, quindi, significa sostanzialmente questo: nuova vita, nuova materia cellulare, nuovi sistemi di elaborazione di dati provenienti dall’ambiente esterno.

Il cervello muta di forma e la struttura si deforma per fare spazio a nuovi apprendimenti o per gestire eccessive stimolazioni che arrivano dall’esterno.

1.2. Il ruolo dello stress nella plasticità cerebrale: No stress? No plasticity.

Ma chi decide quando la plasticità neurale deve entrare in gioco? Chi dà lo “start” ai neuroni per cominciare a costruire nuovi grattacieli di materia cellulare?

Il primo grande deus ex machina della plasticità neurale è lo stress.

Noi siamo sempre stati abituati a dare alla parola “stress” un’accezione negativa, quando in realtà non è così. Lo stress di per sé è una risposta bio-psico-fisica a una qualsiasi forma di sollecitazione interna o esterna. Il sistema nervoso centrale è programmato per rispondere agli stimoli interni/esterni. Siamo così programmati per farlo che la totale mancanza di questo tipo di stimolazione (ad esempio, vivere in una camera insonorizzata, senza pericoli, senza stimoli ma continuamente alimentato) non porta ad un beneficio ma, anzi, porta a totale degenerazione e a morte cerebrale[8].

La biologia ci insegna che l’interazione sociale è necessaria per lo sviluppo della mente umana, sia in fase di sviluppo (dall’infanzia all’adolescenza) sia nell’età adulta, soprattutto nella vecchiaia, dove è massimo il bisogno di attenzioni e di relazioni. Lo stress positivo legato all’interazione con il mondo esterno non solo ci permette di sviluppare nuove forme di regolazione delle nostre emozioni, ma ci porta a sperimentare nuovi desideri e soprattutto nuove soluzioni e strategie per soddisfarli.

Gli unici fattori che possono bloccare questo processo virtuoso sono l’interruzione dei rapporti esterni o, all’opposto, l’eccesso di sollecitazioni provenienti dall’esterno. In entrambi i casi la mente reagisce, trasformando lo stress da adattativo a maladattivo, innescando, quindi, processi neurodegenerativi volti a distruggere tutto quello che era stato costruito precedentemente.

 

1.3. Il ruolo del dolore nella plasticità cerebrale: soffrire aiuta?

Contrariamente a quello che si pensa anche il dolore (come lo stress) non ha valenza solo negativa per l’essere umano. Anzi, il dolore uno dei pochissimi eventi sensoriali che innesca il più atavico, ancestrale e misterioso, fenomeno neurobiologico chiamato neurogenesi[9]. Ma che cos’è esattamente?

Per oltre un secolo nel campo delle neuroscienze qualsiasi ricercatore sapeva benissimo che il cervello umano non può rigenerarsi come fanno i reni, il fegato e gli altri organi “inferiori”[10]. Il cervello umano, una volta sviluppato (fino ai 14-16 anni), non può più produrre nuovi neuroni (le unità basali per il funzionamento di questo organo)[11]. Anche quando apprendiamo qualcosa di nuovo non produciamo nuovi neuroni, ma solo (come abbiamo detto prima) nuova materia cellulare (es. sinapsi, glia).

Dagli anni ’80 in poi, questo credo è stato fortemente messo in discussione[12].

Si scoprì, infatti, che esistono alcune regioni cerebrali in cui la neurogenesi continua ad esistere anche in età avanzata. Tra queste aree, che dimostrano di mantenere intatte le sue capacità di autorigenerarsi, c’è l’ippocampo, ossia la regione cerebrale più importante per l’immagazzinamento di tutte le informazioni episodiche della nostra vita (v. Figura 2).

Figura 2: Ippocampo. La regione cerebrale deputata all’immagazzinamento di tutte gli episodi e gli eventi della nostra vita. Una delle poche regioni cerebrali a rigenerarsi neuronalmente anche dopo l’età adulta. In questa regione i fenomeni di plasticità sono stimolati in particolare dall’associazione con stimoli dolorosi.

Una delle scoperte più sensazionali che si fece in proposito è che la neurogenesi nell’ippocampo è guidata anche dal dolore. Molti ricercatori, però, si sono chiesti come fosse possibile che il più importante meccanismo di rigenerazione biologica della nostra mente sia influenzata proprio dalla più temuta condizione dell’esistenza umana[13]. La spiegazione è abbastanza semplice. Ogni qualvolta si verifica un evento a cui si associa una forte sensazione di dolore cronico (sia fisico che psichico), quell’evento necessita di una nuova struttura neurale. Non bastano qualche sinapsi o qualche nuova cellula gliale. Tutti gli apprendimenti che ricadono nella categoria degli eventi stimolati da forti componenti nocicettive richiedono una nuova famiglia di neuroni capaci di mantenere questo ricordo per lungo tempo. Così lungo che, se si arriva a una vera e propria condizione di trauma psichico, il ricordo dolorifico viene immediatamente trasmesso epigeneticamente alla prole[14]. Il tutto, in un quadro di ottica evoluzionistica secondo cui i ricordi nocicettivi devono essere mantenuti con grande rilevanza e forza neurale per permettere la sopravvivenza della specie.

2. Prime conclusioni (e un’anticipazione).

Quella qui presentata è una estrema sintesi dell’insieme delle conoscenze a cui sono arrivate le moderne neuroscienze negli ultimi anni in questo campo di studi. Ma sono ancora molte le sfide da affrontare: per esempio, capire come potenziare la mente umana per prevenire eventuali vulnerabilità a disturbi neurologici o psicologici; capire come l’evoluzione dei condizionamenti sociali può favorire o interferire con le nostre abilità.

In questo particolare settore non si conosce, per esempio, cosa succede alla mente umana quando questa è sottoposta alla condizione opposta alla creazione di plasticità neurale: l’isolamento. Alcuni studi sulle condizioni di vita sociale interrotta, come nel caso dei recenti fenomeni di Hikikomori[15], possono essere utilizzati per rispondere a questa domanda. Ma esiste un altro fenomeno sociale che più di tutti rappresenta la condizione maladattiva di isolamento: la vita in carcere.

Infatti, mentre per l’Hikikomori la scelta di non interagire più con il mondo esterno è consapevole, il carcere rappresenta la condizione per eccellenza di isolamento costrittivo.

Cosa accade, allora, alla mente di un carcerato prima di entrare nella cella e dopo un anno di deprivazione sensoriale? Con il successivo contributo si cercherà di impostare meglio i termini del problema e di fornire qualche prima risposta a queste domande.

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[1] D. Brooks, L’animale sociale. Alle origini dell’amore, della personalità e del successo, Codice, 2012, p. 33-37.

[2] W. James, Principi di Psicologia, Henry Holt and Company, 1890.

[3] Secondo le moderne neuroscienze la teoria che meglio definisce le diverse sfaccettature della personalità umana è quella chiamata Big Five. Creata da Costa & McCrae nel 1992, la teoria definisce le caratteristiche caratteriali dell’essere umano divise in: a) Nevroticismo; b) Estroversione; c) Apertura Mentale; d) Amicalità; e) Coscienziosità – cfr. P.T. Costa, R.R. McCrae, Psychological Assessment Resources Inc. Revised NEO Personality Inventory (NEO PI-R) and NEO Five-Factor Inventory (NEO-FFI), Psychological Assessment Resources, 1992 –.

[4] Immagine di Nobeastsofierce – acquisita in licenza su Shutterstock.com.

[5] In particolare le aree della corteccia temporale.

[6] Tra cui antidepressivi e farmaci per la cura cronica del Parkinson.

[7] A. Quartarone, H.R. Siebner, J.C. Rothwell, Task-specific hand dystonia: can too much plasticity be bad for you?, in Trends Neurosci, 29(4), 2006, pp. 192 ss.

[8] H. Van Praag, G. Kempermann, F.H. Gage, Neural consequences of environmental enrichment, in Nat Rev Neurosci, 1(3), 2000, pp. 191 ss.

[9] P. Rakic, Neurogenesis in adult primates, in Prog Brain Res, 138, 2002, pp. 3 ss.

[10] Lo stomaco e l’intestino sono i principali organi che, anche se definiti “periferici” rispetto al cervello, stanno avendo la massima attenzione del mondo clinico perché da anni numerose ricerche hanno dimostrato il loro ruolo chiave nella fisiopatologia di malattie neurodegenerative e psichiatriche. Cfr., ad esempio, M.D. Gershon, Il secondo cervello: gli straordinari poteri dell’intestino, Utet Editore, 1998.

[11] J.B. Angevine Jr, R.L. Sidman, Autoradiographic study of cell migration during histogenesis of cerebral cortex in the mouse, in Nature, 192, 1961, pp. 766 ss.

[12] P. Rakic, Limits of neurogenesis in primates, in Science, 227, 1985, pp. 154 ss.

[13] D. Senkowski, M. Hofle, A.K. Engel, Cross modal shaping of pain: a multisensory approach to nociception, in Trends Cogn Sci, 18, 2014, pp. 319 ss.

[14] A.B. Rodgers, C.P. Morgan, N.A. Leu, T.L. Bale, Transgenerational epigenetic programming via sperm microRNA recapitulates effects of paternal stress, in Proc Natl Acad Sci USA, 112(44), 2015, pp. 13699 ss.

[15] Il fenomeno degli hikikomori si è sviluppato in Giappone negli anni ’90; oggi si stima che circa l’1,2% della popolazione nipponica viva in reclusione volontaria. Si tratta di individui, tra i 14 e i 30 anni, per il 90% dei casi di sesso maschile, che decidono razionalmente di rinchiudersi nella propria camera per medi o lunghi periodi di tempo. Gli hikikomori risultano essere sì molto intelligenti, ma altrettanto sensibili ed introversi. Questo temperamento contribuisce a creare in loro un enorme senso di inadeguatezza rispetto agli altri; si sottovalutano così tanto da arrivare a non sentirsi all’altezza delle aspettative che chiunque, in primis i genitori, riversano su di loro; la soluzione più “semplice” da attuare, perciò, è quella di stare lontano da tutto e da tutti. Dietro alla scelta di un hikikomori possono esserci anche problemi di comunicazione in famiglia, episodi di bullismo o fallimenti personali a livello scolastico e/o universitario Cfr., tra molti, M. Crepaldi, Hikikomori. I giovani che non escono di casa, Alpes Italia Editore, 2019.

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