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03.02.2021
Carla Bagnoli - Mario De Caro - Pietro Pietrini - Susanna Arcieri - Raffaele Bianchetti

Ancora su libero arbitrio, imputabilità e responsabilità penale – pt. 1

«Il diritto penale è l’inferno». Spunti a partire dall’intervista di DPU con Massimo Cacciari.
Conversazione con Carla Bagnoli, Mario De Caro e Pietro Pietrini

Fascicolo 2/2021

Nella lunga conversazione avuta con Carla Bagnoli, Mario De Caro e Pietro Pietrini abbiamo discusso nuovamente di libero arbitrio, responsabilità morale, imputabilità e colpevolezza, allo scopo di individuare, con l’aiuto dei tre Autori, i principali apporti della filosofia e delle neuroscienze moderne su quelle che, a nostro avviso, rimangono oggi alcune delle maggiori contraddizioni del sistema di giustizia penale.

Che cosa significa affermare che “l’uomo è libero”?

 

Quali condizionamenti subisce l’individuo ogni volta che agisce e pensa, e in quale misura l’esistenza di essi è conciliabile con i concetti di “coscienza e volontà” che sono alla base dell’attribuzione della responsabilità penale?

 

Ha senso, dal punto di vista della filosofia morale e delle scienze cognitive, il ricorso alla “pena” così come la intendiamo oggi?

In questo primo capitolo della conversazione, Bagnoli, De Caro e Pietrini condividono le proprie considerazioni a partire da alcune provocazioni che il filosofo Massimo Cacciari ha recentemente espresso in occasione della sua intervista con DPU (che potete leggere e guardare a questo indirizzo).

Guarda il video del primo capitolo della conversazione con Carla Bagnoli, Mario De Caro e Pietro Pietrini, effettuata il 4 dicembre 2020

Di recente, in questa rivista, abbiamo intervistato il Prof. Massimo Cacciari, con il quale abbiamo parlato di colpevolezza, imputabilità e libero arbitrio[1].

Vorremmo iniziare proponendovi alcune delle sue riflessioni.

«Non c’è, nella scienza, alcuno spazio per poter accogliere l’idea che la mia parte noetica venga da fuori di me. Noi siamo parte della natura e quindi niente affatto liberi».

In particolare, ha detto Cacciari, «sarebbe necessario riconoscere, scientificamente, che ogni azione conscia è solo la punta dell’iceberg di un immenso inconscio. Il giudice che commina la pena che cosa sa di tutta questa parte? Egli giudica esclusivamente la parte visibile dell’iceberg, ma è totalmente ignorante dell’inconscio».

Il “libero arbitrio” sarebbe dunque solo un’illusione, dal momento che l’essere umano non può né potrà mai essere libero dalla sua base biologica. Anche per questo, secondo Cacciari, il diritto penale «puzza tremendamente d’inferno».

Qual è la vostra opinione in proposito? Esiste il libero arbitrio? C’è qualcuno al “timone” della nostra mente? E se sì, chi?

 

Carla Bagnoli

La metafora platonica del capitano “unico” della nave è spesso utilizzata in modo polemico nella discussione della plausibilità dei modelli filosofici di deliberazione razionale. Recentemente, per esempio, viene ripresa da Simon Blackburn in The Ruling Passions per criticare il modello di deliberazione kantiano[2].

A mio avviso, questa critica è inappropriata, poiché il modello kantiano è alternativo a quello della metafora del capitano. Anziché un capitano unico, che domina la ciurma, Kant propone un modello dialogico di “co-legislazione”, dove ogni agente ragiona dal punto di vista di una pluralità di agenti finiti, interdipendenti, limitati ma capaci di finalità proprie soprattutto capaci di immaginarsi in un rapporto di reciprocità con i loro simili (altrettanto finiti, interdipendenti, limitati eppure capaci di reciprocità). Una tale pluralità di agenti, dai fini eterogenei e potenzialmente confliggenti, non trova una coordinazione “naturale”. Il modello kantiano riconosce dunque l’origine della normatività (in generale, ma soprattutto quella del diritto) come la soluzione ad un problema di coordinazione tra agenti, finiti e limitati, che agiscono nel tempo e quindi in un mondo deterministico. In The Sources of Normativity, Christine Korsgaard sostiene che l’etica kantiana dell’autonomia è l’unica plausibile in una visione naturalistica dell’universo[3]. È quindi particolarmente interessante che Blackburn usi la metafora del capitano proprio contro Kant.

Usando in modo polemico la metafora platonica, Blackburn intende mostrare che le disposizioni naturali, se ben educate, possono essere delle direttrici della deliberazione. Si tratta di un modello “naturalistico”, che rinuncia agli assunti autonomisti che di solito vengono attribuiti alle etiche e alle teorie dell’azione razionale in senso classico. È un modello che ci fa vedere come l’ipotesi di avere un corpo e di avere delle disposizioni naturali non contrasti affatto con una concezione dell’agire deliberato. Al contrario, le disposizioni naturali si possono educare in modo da costituire motivazioni morali affidabili e autorevoli nel tempo.

L’obiettivo polemico di Blackburn è una certa concezione intellettualistica e monolitica della deliberazione razionale, che affida alla Ragione il comando della nave. Questa concezione è certamente inadeguata e, pace Blackburn, già esautorata proprio dalla critica kantiana del razionalismo dogmatico. In altre parole, questa battaglia è già vinta da un paio di secoli. Ciò che, invece, è più problematico, allo stato attuale del dibattito, è che cosa intendere per deliberazione razionale, p.e., quali sono le norme costitutive o se vi sono tali norme.

Una certa concezione intellettualistica e monolitica della deliberazione razionale […] è certamente inadeguata […]. In altre parole, questa battaglia è già vinta da un paio di secoli. Ciò che, invece, è più problematico, allo stato attuale del dibattito, è che cosa intendere per deliberazione razionale

Carla Bagnoli

La via più promettente, a mio avviso, consiste nella rivisitazione del concetto di ragione pratica. Per esempio, il modello aristotelico di ragionamento pratico è stato utilissimo per comprendere l’impatto della corporeità e delle emozioni sulle attività deliberative. Il recupero di queste risorse teoriche, aristoteliche e kantiane, ci consente di collocare la deliberazione razionale nella giusta prospettiva, senza ricorrere a ipotesi metafisiche stravaganti o anti-naturalistiche. Il naturalismo impone un vincolo di plausibilità ineludibile alla teoria della deliberazione così come a tutte le dimensioni della normatività. Si tratta di un vincolo di plausibilità, che dunque non attiene ai contenuti dell’attività della deliberazione, né ai profili normativi che possono essere tracciati a partire da teorie dell’azione razionale più o meno complesse. Quindi, una volta riconosciuto questo vincolo di plausibilità descrittiva, la discussione interessante riguarda il profilo di agente razionale che intendiamo promuovere: questa è la dimensione etica e politica della normatività.

La via più promettente, a mio avviso, consiste nella rivisitazione del concetto di ragione pratica. Per esempio, il modello aristotelico di ragionamento pratico è stato utilissimo per comprendere l’impatto della corporeità e delle emozioni sulle attività deliberative

Carla Bagnoli

Le metafore sono sempre molto suggestive; d’altra parte, però, l’indagine filosofica sulla deliberazione razionale è un altro genere di lavoro. Un lavoro che va fatto “di fino”, non solo per determinare il posto della normatività nella natura, ma anche per dar forma alla sua progettualità, a partire dai profili di “agente razionale” ammissibili dal punto di vista del naturalismo (beninteso, un naturalismo non-riduttivista, del tipo che Mario De Caro, insieme ad altri, ha fortemente difeso).

 

Mario De Caro

Sono naturalmente d’accordo con la Prof.ssa Bagnoli e aggiungerei che nelle sue considerazioni, peraltro interessanti, il Prof. Cacciari propone una visione a mio avviso obsoleta del dibattito sul libero arbitrio. Nelle sue parole mi pare di sentire l’eco – ma forse mi sbaglio – della prospettiva nietzschiana, per la quale «noi siamo il nostro corpo».

Il Prof. Cacciari propone una visione a mio avviso obsoleta del dibattito sul libero arbitrio. Nelle sue parole mi pare di sentire l’eco […] della prospettiva nietzschiana, per la quale «noi siamo il nostro corpo»

Mario De Caro

Il libero arbitrio come lo interpreta Cacciari è un’idea vecchia che appartiene a una metafisica ormai morta. Anzitutto, nessuno studioso che si occupi seriamente di libero arbitrio lo concepisce ancora in quel modo. E neppure viene concepito come ritiene Cacciari il rapporto tra la mente e il corpo, secondo una visione, cioè, che ricalca il vecchio modello di matrice cartesiana, che postula l’esistenza di una mente razionale autocosciente che dovrebbe governare tutti gli impulsi non cognitivi, ossia le passioni e le emozioni. Nessuno la pensa più così, ripeto: è un modello ormai del tutto obsoleto.

Grazie alle scienze cognitive, alla psicologia ma anche alle neuroscienze, sappiamo che c’è una profonda commistione tra il piano razionale e cognitivo e quello emotivo. Non è vero che il primo governa il secondo, ma a mio avviso – credo anche secondo la Prof.ssa Bagnoli, e immagino anche a parere del Prof. Pietrini – non è nemmeno vero l’opposto, ossia che la razionalità e la coscienza non giochino alcun ruolo. Esiste infatti una profonda commistione tra i due livelli.

Pertanto, il primo punto da cui dovremmo partire è che l’idea di un “capitano” che dall’alto controlla la nostra mente appartiene a una concezione ormai ampiamente superata, che è del tutto inutile contestare perché, ripeto, di fatto è già morta. Stesso discorso vale per il libero arbitrio: l’dea che esso sia qualcosa di contro-causale, qualcosa che va contro la legalità naturale, è un’idea completamente superata.

Grazie alle scienze cognitive, alla psicologia ma anche alle neuroscienze, sappiamo che c’è una profonda commistione tra il piano razionale e cognitivo e quello emotivo. Non è vero che il primo governa il secondo, ma a mio avviso […] non è nemmeno vero l’opposto, ossia che la razionalità e la coscienza non giochino alcun ruolo. Esiste infatti una profonda commistione tra i due livelli

Mario De Caro

Se lo intendiamo in questi termini, allora certamente il libero arbitrio non esiste; ha ragione Cacciari. L’errore che commette Cacciari, a mio parere, è appunto quello di ritenere che, quando si discute oggi di libero arbitrio si faccia riferimento a quella concezione. Non è affatto così: come diceva la Prof.ssa Bagnoli, oggi quando si ragiona di libero arbitrio si pensa piuttosto a un modo di interazione tra gli stati cognitivi e gli stati emotivi tale per cui, in alcuni casi – non moltissimi peraltro, secondo la psicologia cognitiva – gli stati coscienti, cognitivi, sono in grado di controllare le nostre azioni.

Si tratta, tra l’altro, di un discorso che si accosta in maniera tangenziale alla vecchia contrapposizione determinismo-indeterminismo, in quanto rappresenta una forma di cosiddetto “compatibilismo”, una visione, cioè, che “funziona” anche laddove ammettessimo di vivere in mondo regolato da leggi deterministiche.

L’errore che commette Cacciari, a mio parere, è appunto quello di ritenere che, quando si discute oggi di libero arbitrio si faccia riferimento a quella concezione. Non è affatto così […] oggi quando si ragiona di libero arbitrio si pensa piuttosto a un modo di interazione tra gli stati cognitivi e gli stati emotivi tale per cui, in alcuni casi […] gli stati coscienti, cognitivi, sono in grado di controllare le nostre azioni

Mario De Caro

La provocazione di Cacciari invece, presuppone la vecchia idea per cui, in un modo deterministico, non può esistere il libero arbitrio, secondo la concezione antica del termine. Insomma, si tratta di una visione magari interessante, con una grande storia, però completamente  obsoleta.

  

Pietro Pietrini

Vorrei focalizzarmi sull’ultimo punto sollevato dal Prof. Cacciari, ossia l’idea che «il diritto penale è l’inferno». Credo che qui torni in campo la solita, vecchia questione, sulla quale ho discusso in molte occasioni anche con il Prof. De Caro, che è quella di capire quanto una persona sia in grado di controllare i propri impulsi, il proprio comportamento e di fare altrimenti se solo lo volesse.

Nel diritto penale, quello che il giudice chiede al perito, quando gli pone i noti quesiti, è sostanzialmente questo: di valutare se il periziando era, al momento dei fatti, persona capace di intendere e di volere, ossia se fosse in grado di comprendere la natura delle azioni che si accingeva a compiere e le loro conseguenze, e se avrebbe potuto agire diversamente da come ha agito, se solo l’avesse voluto. Se anche una sola di queste due condizioni era abolita o grandemente scemata al momento dei fatti, la persona è, rispettivamente, non imputabile o solo parzialmente imputabile e dunque solo parzialmente responsabile del fatto commesso.

Vorrei focalizzarmi sull’ultimo punto sollevato dal Prof. Cacciari, ossia l’idea che «il diritto penale è l’inferno». Credo che qui torni in campo la solita, vecchia questione […] di capire quanto una persona sia in grado di controllare i propri impulsi, il proprio comportamento e di fare altrimenti se solo lo volesse

Pietro Pietrini

Il punto centrale qui, a mio avviso, è che noi, come società, ci siamo dati delle regole. La nostra libertà sta proprio nella capacità di adattare e controllare il nostro comportamento in ragione di quelle regole. È ovvio, infatti, che se ciascuno di noi vivesse su un’isola deserta, non avremmo bisogno di rispettare alcuna regola che non fosse quella che ci induce a soddisfare i nostri bisogni. È però sufficiente che sull’isola ci sia un’altra persona perché si diventino necessarie norme per far sì che la libertà dell’uno non invada quella dell’altro e non sia lesiva dei diritti dell’altro.

Dal momento che viviamo in una società organizzata, abbiamo un sistema di regole. Le quali, peraltro, si sono modificate ed evolute nel tempo. Lo scorso venerdì, 27 novembre, ricorreva la giornata internazionale della lotta alla violenza contro le donne, che è un tema di grandissima attualità. La violenza nei confronti della donna affonda le sue radici qualche millennio addietro. Nel 621 avanti Cristo, Dracone introdusse per la prima volta una legge che normava la punizione per i reati di omicidio. Dracone operò la distinzione tra l’omicidio volontario e l’omicidio colposo; il primo veniva punito con la pena di morte, il secondo con l’esilio. Oltre a questi, tuttavia, vi era anche l’omicidio “giusto”, ossia quello perpetrato da chi coglieva la moglie, la compagna, la fidanzata – ma anche la figlia, la madre o la sorella – in flagrante adulterio, che comportava l’applicazione di una pena ridotta. All’epoca, dunque, i casi di uccisione lecita della donna andavano ben oltre i casi di tradimento all’interno della coppia, secondo una concezione tipicamente ispirata a un’idea di controllo totale da parte dell’uomo sulla vita delle donne.

Il punto centrale qui, a mio avviso, è che noi, come società, ci siamo dati delle regole  […]. La nostra libertà sta proprio nella capacità di adattare e controllare il nostro comportamento in ragione di quelle regole

Pietro Pietrini

La logica alla base del codice draconiano, vecchio di 2641 anni, è rimasta pressoché inalterata nella cultura giuridica fino ai tempi nostri. È solo nel 1981, infatti, che in Italia è stata abrogata la legge in materia di delitto d’onore, che anche nella formulazione testuale era molto simile a quella del codice draconiano. Ai sensi di quella disposizione, chiunque avesse ucciso la propria moglie, madre, sorella o figlia, «nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia» riceveva una pena sostanzialmente irrisoria (da 3 a 7 anni). Oggi, al contrario, l’omicidio della propria compagna, figlia o moglie in ragione di quegli stessi motivi è considerato aggravato e dunque è punito più severamente. Tutto ciò dimostra come, nel tempo, uno stesso comportamento possa essere giudicato in maniera radicalmente diversa all’interno della medesima società.

Perché ho fatto riferimento a Dracone? Perché siamo abituati a pensare alle epoche del passato come se fossero qualcosa che non ci riguarda, ma spesso non è affatto così. La norma del codice draconiano è passata indenne attraverso secoli e secoli di evoluzione sociale, a dimostrazione che il presupposto concettuale sul quale si fondava – il diritto dell’uomo al controllo sulla donna – è rimasto tale fino a poche decine di anni fa in tutti i sistemi giuridici dei Paesi occidentali e ancora sopravvive non solo nella giurisprudenza di molti altri Paesi ma purtroppo anche nel comune sentire sociale.

Che cosa vuol dire “libero arbitrio” nella prospettiva del diritto penale? Esso indica la capacità di controllare il proprio comportamento in modo tale da rispettare le leggi vigenti.

Certamente tutti noi siamo determinati, lo siamo molto. Siamo determinati in tutto, anche ad esempio nella scelta dei cibi prediletti; quasi nulla è frutto di una libera scelta. Abbiamo caratteristiche che ci portano a scegliere una cosa invece di un’altra e talvolta ci accorgiamo che le stesse caratteristiche sono presenti anche nei nostri figli.

Dunque, siamo determinati; tuttavia, abbiamo anche un certo grado di libertà che ci permette di controllare il nostro comportamento ed è sulla portata di questo grado di libertà che si concentra la discussione. Anche nell’ambito delle neuroscienze, ciò su cui stiamo lavorando è cercare di capire in quali casi e in quale misura una persona non è più in grado di comprendere pienamente il significato delle azioni che compie e perde la capacità di agire altrimenti.

Certamente tutti noi siamo determinati, lo siamo molto. Siamo determinati in tutto, anche ad esempio nella scelta dei cibi prediletti; quasi nulla è frutto di una libera scelta […]. Tuttavia, abbiamo anche un certo grado di libertà che ci permette di controllare il nostro comportamento ed è sulla portata di questo grado di libertà che si concentra la discussione

Pietro Pietrini

Esistono casi in cui il venir meno della capacità di controllare il proprio agire appare chiara a tutti, come ad esempio quello del cleptomane. Il cleptomane compie un atto nella piena consapevolezza del suo disvalore sociale, ma non può fare diversamente, a causa di un impulso che – appunto – è irrefrenabile e come tale insopprimibile. Pensiamo al direttore di banca (caso reale) che, in balìa dell’impulso, si mette nei guai per avere sottratto una boccetta di tester di profumo dallo scaffale di un duty-free dell’aeroporto, in luogo nel quale tutti sanno esserci telecamere ovunque. Credo che nessuno di noi, in casi come questo, nel quale una persona stimata mette a rischio la sua reputazione e la sua professione per un impulso incontrollabile, avrebbe difficoltà a dire che quella è una persona malata, non certo un criminale.

Un altro esempio è quello dell’impulso e del comportamento pedofilico e qui il discorso si complica, perché il disvalore sociale della condotta non è evidentemente paragonabile a situazioni come quella del cleptomane. Tuttavia, se lasciamo da parte il disvalore sociale e la gravità dell’atto in sé e ci concentriamo invece sulle caratteristiche che condizionano, direi determinano, e che sono alla base del comportamento del cleptomane e del pedofilo, è difficile arrivare a trovare qualcosa che sia poi tanto diverso, da un punto di vista scientifico, nei due casi.

Queste sono le frontiere della ricerca in questo senso, che la letteratura anglosassone, giocando sulle parole, sintetizza con il noto: bad or mad. Vale a dire: un individuo è bad, cioè è cattivo per scelta, perché sa di essere cattivo e potrebbe fare altrimenti, oppure è mad, ossia è malato, “cattivo” dal punto di vista della società, ma di fatto privo della capacità di comportarsi diversamente e/o di comprendere la natura delle cose che sta facendo?

 

(continua…)

 

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[1] Cfr. M. Cacciari, S. Arcieri, F. Basile, R. Bianchetti, P.E. Cicerone, Alla radice dell’imputabilità e della colpevolezza penali. Conversazione con Massimo Cacciari – pt. 1, in questa rivista, 16 dicembre 2020.

[2] S. Blackburn, The Ruling Passions, Clarendon Press, 1998, pp. 243 ss.

[3] Cfr., in proposito, C. Korsgaard, The Sources of Normativity, Cambridge University Press, 1996.

Altro

Un incontro di saperi sull’uomo e sulla società
per far emergere l’inatteso e il non detto nel diritto penale

 

ISSN 2612-677X (sito web)
ISSN 2704-6516 (rivista)

 

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