16.12.2020
Massimo Cacciari - Susanna Arcieri - Fabio Basile - Raffaele Bianchetti - Paola Emilia Cicerone

Alla radice dell’imputabilità e della colpevolezza penali. Conversazione con Massimo Cacciari – pt. 1

Libertà, giustizia e inferno dantesco del diritto penale. La coscienza umana tra scienze biologiche e filosofia

Al cuore (o al cervello) dell’imputabilità e della colpevolezza, tra scienza, filosofia e diritto penale. Si può davvero ancora sostenere che l’uomo è libero? La coscienza è l’iceberg dell’inconscio che il diritto penale non può (o non vuol) vedere

Guarda il video del primo capitolo della conversazione con Massimo Cacciari, effettuata il 16 novembre 2020

Buongiorno Professore; sappiamo che Lei è recentemente entrato a far parte, in qualità di responsabile, del Comitato Scientifico di Human Brains, l’iniziativa sul cervello e la coscienza lanciata questo autunno dalla Fondazione Prada.

È proprio dallo spunto rappresentato da Human Brains che vorremmo dare avvio a questa conversazione, nella quale rifletteremo su temi legati alla coscienza umana, ai concetti di libero arbitrio e di colpevolezza, anche in relazione al diritto. A quest’ultimo tema, in particolare, è dedicato il recente volume “Elogio del Diritto[1], scritto da Lei insieme a Natalino Irti e che si apre con un saggio di Werner Jaeger, con lo stesso titolo.

Ma partiamo prima di tutto dalla scienza: nella presentazione del progetto Human Brains dello scorso 22 ottobre, ha parlato di un «salto quantico» che la coscienza umana ha fatto per diventare quello che è oggi. Potrebbe spiegarci meglio questo concetto?

È chiaro che non sono un neurologo, né uno scienziato che studia i processi cerebrali. Sono un filosofo che ritiene che da sempre la filosofia debba avere a che fare con il progresso scientifico, con le acquisizioni più importanti della scienza “dura” e, in particolare, con quei rami della scienza che studiano, con progressi straordinari, le basi biologiche della nostra coscienza.

La storia della filosofia inizia dicendo: “Conosci te stesso”, ma non è possibile farlo se non conosciamo il nostro corpo. È una contraddizione in termini. O decidiamo di essere i più astratti tra i dualisti e, dunque, scegliamo di credere che la sostanza estesa sia qualcosa di completamente separato dalla sostanza pensante – cosa che lo stesso Cartesio, al quale si deve l’introduzione del dualismo nella filosofa moderna, non riteneva affatto: questa è infatti una semplificazione risibile del discorso cartesiano –, oppure siamo costretti a interrogarci sulle basi biologiche della coscienza.

Ciò che caratterizza l’essere umano è la coscienza, ma la coscienza ha basi biologiche, è un prodotto dell’evoluzione. Tuttavia – e tutti gli scienziati veri ormai lo danno per pacifico –, esiste un salto drammatico.

La storia della filosofia inizia dicendo: “Conosci te stesso”, ma non è possibile farlo se non conosciamo il nostro corpo. È una contraddizione in termini. O decidiamo di essere i più astratti tra i dualisti e, dunque, scegliamo di credere che la sostanza estesa sia qualcosa di completamente separato dalla sostanza pensante […] oppure siamo costretti a interrogarci sulle basi biologiche della coscienza

Al convegno della Fondazione Prada, diversi tra i più grandi e illustri neurologi hanno insistito su questo dato. C’è una sorta di anello mancante tra l’evoluzione della nostra specie, a partire dai primati, e l’emergere della coscienza, così come del linguaggio (che è una delle caratteristiche uniche della nostra specie, posto che nessun altro animale, neanche i primati più evoluti, sono dotati del linguaggio).

Esiste una base biologica della coscienza, inevitabilmente. E le scienze del cervello sono ormai giunte a un punto tale da essere in grado di comprendere il funzionamento di un singolo neurone. D’altra parte, tuttavia, i diversi neuroni collaborano tra loro ed è a questo punto che emerge questo fenomeno straordinario che è la coscienza umana. Un grande psicologo, Antonio Damasio, ha parlato del “dono del sé”, alludendo a qualcosa che, appunto, ci viene donato. Non sappiamo da dove venga questo dono. Si tratta di un fatto fisico, è qualcosa che riguarda la natura, a meno di voler credere – come ad esempio credeva Dante, e con lui tutte le grandi tradizioni religiose – che questa parte noetica ci venga direttamente da Dio. È del tutto lecito ritenerlo, credere cioè che esistano, da un lato, una base vegetativa sensitiva della nostra anima e, dall’altro, una base noetica, che al contrario viene da fuori di noi.

Se però non crediamo questo, dobbiamo allora ritenere che questa coscienza abbia una base biologica e che la natura – appunto – abbia fatto un salto.

 

Lei poco fa accennava al fatto che è nella natura dell’uomo porsi delle domande: la domanda sul libero arbitrio è una di quelle che l’uomo si pone da sempre, dalla notte dei tempi, che cosa ci può dire in proposito?

Siamo ancora sul terreno della coscienza. Libero arbitrio e coscienza, così come il linguaggio, sono termini correlati, perché sono tutte dimensioni tipiche del nostro “esserci”. In tutte le specie animali troviamo volontà di vita. I filosofi l’hanno spiegato da tempo, dal conatus di Leibniz, alla volontà di vita di Schopenhauer, che citava Spinoza. E poi c’è questo salto, che ripeto, è drammatico, in cui emerge la coscienza, che ci porta al linguaggio e a interrogarci sulla nostra libertà. Perché il fatto che noi siamo esseri straordinari rispetto a tutti gli altri, perché siamo coscienti di noi stessi, delle nostre sensazioni, e siamo capaci di parlare, genera l’idea di libertà: la nostra straordinarietà fa sì, cioè, che ognuno di noi si senta libero rispetto alla “legge della natura”.

Il che, però, non è vero. La coscienza ha una base biologica, dunque non sarò mai libero rispetto a questa base biologica. Ci sentiamo liberi ed è inevitabile che sia così, in quanto siamo straordinari rispetto alla normalità della natura, ma è un’illusione. La libertà è questo: è un sentimento fondato sul fatto che linguaggio e coscienza sono davvero qualcosa di straordinario rispetto ad altri esseri viventi.

Il fatto che noi siamo esseri straordinari rispetto a tutti gli altri, perché siamo coscienti di noi stessi, delle nostre sensazioni, e siamo capaci di parlare, genera l’idea di libertà […]. Il che, però, non è vero. La coscienza ha una base biologica, dunque non sarò mai libero rispetto a questa base biologica

Nella storia umana, però, questa dicotomia fra libero arbitrio e determinismo ha condotto a diatribe profonde, religiose e filosofiche…

È una dicotomia del tutto fasulla perché si basa su un colossale equivoco. Io debbo considerarmi del tutto parte della natura. Non c’è, nella scienza, alcuno spazio per poter accogliere l’idea che la mia parte noetica venga da fuori di me. Noi siamo parte della natura e quindi niente affatto liberi. Saremo condizionati dalle leggi della natura come chiunque altro. Tuttavia, allo stesso tempo, siamo anche esseri straordinari rispetto agli altri, e perciò ci sentiamo liberi. Il dibattito si fonda su un equivoco: siamo semplicemente di fronte a due prospettive diverse sulla stessa cosa, non c’è alcuna contraddizione.

Non c’è, nella scienza, alcuno spazio per poter accogliere l’idea che la mia parte noetica venga da fuori di me. Noi siamo parte della natura e quindi niente affatto liberi. Saremo condizionati dalle leggi della natura come chiunque altro

Nell’ambito del diritto penale questa diatriba è sempre stata d’imperio superata. Il diritto penale, infatti, è costruito sul sentimento di libertà di cui Lei ha appena parlato: formula i suoi precetti e applica le sue pene confidando su questo sentimento di libertà. Tuttavia, all’atto pratico, il diritto penale va a colpire persone che, secondo la prospettiva da Lei illustrata, libere non sono. Persone che, forse, margini di scelta non avevano. Secondo Lei c’è un modo per superare questa contraddizione?

Il diritto penale è una mia antica passione perché si lega profondamente al grande tema filosofico di cui abbiamo parlato. Poi, come diceva Simone Weil, il diritto penale puzza tremendamente d’inferno[2], pertanto ha un fascino straordinario, come l’Inferno di Dante.

A mio avviso, bisognerebbe sempre iniziare un corso di diritto penale studiando l’Inferno di Dante. Lì, infatti, tutto è chiaro, perché c’è l’idea che la punizione sia perfettamente giusta perché perfettamente commisurata alla colpa commessa, e in questa perfetta commisurazione, in questo equilibrio che, in quanto tale, evita qualsiasi vendetta, tutto è perfettamente proporzionale. Il contrappasso, che meraviglia. Una giustizia divina matematica. Più perfetta è la pena, più il condannato deve lasciare ogni speranza. Questo è l’Inferno, qualcosa che contraddice la lieta novella.

A mio avviso, bisognerebbe sempre iniziare un corso di diritto penale studiando l’Inferno di Dante. Lì, infatti, tutto è chiaro, perché c’è l’idea che la punizione sia perfettamente giusta perché perfettamente commisurata alla colpa commessa […]. Più perfetta è la pena, più il condannato deve lasciare ogni speranza

Sarebbe necessario riconoscere, scientificamente, che ogni azione conscia è solo la punta dell’iceberg di un immenso inconscio. Il giudice che commina la pena che cosa sa di tutta questa parte? Egli giudica esclusivamente la parte visibile dell’iceberg, ma è totalmente ignorante dell’inconscio.

Nella nostra vita conscia agiamo secondo meccanismi che sono al 90% inconsci. La consapevolezza scientifica dovrebbe farci rendere conto che un’azione conscia nasce sempre, comunque, da un immenso e profondissimo inconscio.

Questa circostanza è stata dimostrata con chiarezza dagli studi sul cervello.

E allora come fa il diritto penale? È semplice. Funziona secondo il meccanismo del “come se”: io agisco come se questo problema non ci fosse, o avesse una rilevanza minima. E vado avanti così.

È per questa ragione che il diritto penale puzza d’inferno: come la giustizia divina di Dante, esso non tiene minimamente conto dell’inconscio. Né peraltro potrebbe, in effetti, tenerne conto, poiché altrimenti qualsiasi forma di diritto verrebbe meno.

Nella nostra vita conscia agiamo secondo meccanismi che sono al 90% inconsci […]. Questa circostanza è stata dimostrata con chiarezza dagli studi sul cervello. E allora come fa il diritto penale? È semplice. Funziona secondo il meccanismo del “come se”: io agisco come se questo problema non ci fosse, o avesse una rilevanza minima. E vado avanti così […]. È per questa ragione che il diritto penale puzza d’inferno

Questo è il dramma che mi ha sempre affascinato del diritto penale: la sua la base tragica. Il diritto penale non può permettersi di prendere in considerazione il fatto che ciò che avviene a livello conscio è anche il prodotto dell’inconscio.

Questo è il dramma che mi ha sempre affascinato del diritto penale: la sua la base tragica. Il diritto penale non può permettersi di prendere in considerazione il fatto che ciò che avviene a livello conscio è anche il prodotto dell’inconscio

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[1] Edito da La nave di Teseo, 2019.

[2] S. Weil, Attesa di Dio, 1949, a cura di J.-M. Perrin, trad. it. di Orsola Nemi, Rusconi, 1996.

Altro

Un incontro di saperi sull’uomo e sulla società
per far emergere l’inatteso e il non detto nel diritto penale

 

ISSN 2612-677X (sito web)
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