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11.03.2020
Susanna Arcieri - Margherita Lazzati

Carcere e fotografia

Intervista a Margherita Lazzati

Fascicolo 3/2020

Per guardare il video dell’intervista, pubblicato su DPU – il blog, clicca qui.


 

Come è nata l’idea di fotografare la vita carceraria? Perché?

Dal 2011, sono volontaria presso il carcere di Opera nell’ambito di un progetto che io trovo straordinario: il Laboratorio di lettura e scrittura creativa, fondato venticinque anni fa da Silvana Ceruti, che ancora oggi lo dirige.

Nel 2013, noi volontari abbiamo avvertito sensibilmente gli effetti della condanna della Corte europea nei confronti dell’Italia per la condizione carceraria[1]. Prima di allora, infatti, ad ogni accesso al carcere di Opera venivamo fisicamente accompagnati dagli agenti di polizia penitenziaria dall’ingresso fino al laboratorio, nel quale restavamo chiusi per le tre ore di attività, per poi essere riaccompagnati all’uscita. Dal 2013 abbiamo potuto muoverci più liberamente lungo il percorso che conduce al laboratorio e, più in generale, abbiamo cominciato ad respirare un’aria diversa. È stato allora che ha cominciato a prendere forma dentro di me un desiderio: mi sarebbe piaciuto invitare le persone fuori dal carcere a osservare il tavolo attorno al quale ci ritrovavamo ogni sabato mattina e “sfidare” loro a riconoscere chi erano i volontari e chi i detenuti.

Teniamo presente che tutti i detenuti di Opera sono condannati definitivi con pene superiori ai cinque anni; per questo motivo, la maggior parte delle persone che frequentano il laboratorio – al momento abbiamo tra le 22 e le 25 presenze, oltre a dodici volontari – lo fanno per dieci, quindici anni. Una persona è stata con noi addirittura per diciotto anni. Inevitabilmente questo fa sì che si creino dei legami, rapporti importanti e, soprattutto, senza maschere.

Nel 2015 ho chiesto al direttore del carcere di allora, Giacinto Siciliano, di poter portare in laboratorio la mia macchina fotografica, per immortalare l’atmosfera che vivevamo lì dentro, ed ebbi il permesso. L’anno dopo – era l’ottobre del 2016 – il direttore mi chiese di mettere insieme gli scatti più significativi per crearne un CD da donare al papa in occasione del Giubileo dei detenuti. Naturalmente acconsentii con piacere; in cambio, però, feci anch’io una richiesta al dott. Siciliano: gli mostrai una fotografia di un volontario e di un ergastolano e gli dissi: «vorrei chiedere a chi guarda questa immagini di indovinare chi è chi».

La maggior parte delle persone che frequentano il laboratorio […] lo fanno per dieci, quindici anni. Una persona è stata con noi addirittura per diciotto anni. Inevitabilmente questo fa sì che si creino dei legami, rapporti importanti e, soprattutto, senza maschere

Il dott. Siciliano è rimasto colpito dell’idea e, per i successivi sei mesi, ho realizzato in decine di scatti i ritratti di tutte le persone che frequentavano il laboratorio. Dopo aver raccolto la liberatoria di tutti, ho portato una selezione di immagini alla MIA, la fiera internazionale della fotografia. Ricordo che, quando ha visto il nostro stand durante la fiera, il dott. Siciliano ha commentato: «così abbiamo fatto crollare le teorie di Lombroso, perché nessuno riesce a identificare chi è il detenuto e chi il volontario».

Dopo quell’esperienza, lo stesso direttore mi chiese di continuare a fotografare la realtà del carcere di Opera, senza più limitarmi ai soli volti. Mi chiese infatti di provare a rappresentare la quotidianità in carcere. Fotografando tutto: gli spazi comuni, il cortile interno, i camminamenti. Anche le celle: in quel caso, però, era necessario l’invito della persona che la occupava.

Osservando gli scatti della mostra “Fotografie in carcere. Manifestazioni della libertà religiosa”, ci ha colpito l’assenza di didascalie ad accompagnare le fotografie. Come mai questa scelta?

La mostra nasce proprio nell’ambito del progetto sulla quotidianità in carcere, e in particolare da un’idea – a mio avviso geniale – del dott. Siciliano: l’idea, cioè, di realizzare un diritto penitenziario per immagini. Abbiamo scelto di partire dell’articolo 58 del Regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario (D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230), sulla libertà di espressione di culto in carcere. Il lavoro di selezione delle fotografie è stato lungo; alla fine, ne ho isolate circa un centinaio, per presentare le quali ho dovuto chiedere l’autorizzazione sia all’attuale direttore del carcere, Silvio Di Gregorio, sia all’allora provveditore alle carceri lombarde, Luigi Pagano.

La mostra nasce […] da un’idea […] di realizzare un diritto penitenziario per immagini. Abbiamo scelto di partire dell’articolo 58 del Regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario […], sulla libertà di espressione di culto in carcere

Quest’ultimo, in particolare, mi mise in guardia: «attenzione a non banalizzare, le didascalie banalizzano. Occorre fare in modo che chi guarda le immagini si faccia delle domande». Il suggerimento mi è piaciuto moltissimo.

Quindi, la scelta di evitare le didascalie deriva dalla volontà di seguire quel consiglio, per sollecitare l’osservatore a interrogarsi sul senso delle immagini.

Sempre a proposito della mostra, una cosa di cui sono stata veramente grata (alla direzione del carcere e anche alla direzione del Museo Diocesano, che ha ospitato la mostra), è stato l’avermi permesso di coinvolgere alcune persone detenute durante le visite delle scuole. Si trattava di detenuti in regime di semilibertà (ex art. 21 o.p.), i quali, come forma di lavoro socialmente utile, si occupavano appunto di presentare e illustrare la mostra.

Il loro impegno, dedizione e rispetto sono stati talmente apprezzati che, al termine della mostra, la direzione del museo ha chiesto loro di continuare ad essere presenti per svolgere servizio di custodia e sorveglianza.

 

Come mai, in alcuni dei suoi scatti, i volti dei detenuti sono sfocati?

I volti sfocati corrispondono a quelli delle persone a cui non ho potuto chiedere la liberatoria per l’utilizzo delle immagini (ad esempio perché in questi anni sono stati trasferiti, o perché sono nel frattempo usciti di prigione), o che non hanno voluto concedermela.

Talvolta, purtroppo, si è trattato di persone che semplicemente non si sono riconosciute nella fotografia perché, dopo molti anni di reclusione – in carcere non ci sono specchi –, l’immagine immortalata nella foto non corrispondeva all’immagine che custodivano dentro di sé. Come se si trattasse di due persone diverse.

In questi casi, la Galleria l’Affiche (che ha allestito la mostra) propose come soluzione, appunto, quella di sfocare i volti di alcune foto in fase di stampa. Trovo che sia stata un’ottima idea, anche perché, per la società civile, la parola “detenuto” è spesso sinonimo di “fantasma”.

Per la società civile, la parola “detenuto” è spesso sinonimo di “fantasma”

Di quali altri aspetti della vita carceraria ha intenzione di occuparsi in futuro?

Al momento, sto portando avanti anche un altro progetto, in questo caso presso il carcere di San Vittore, denominato Il carcere: quartiere della città. Si tratta di un’iniziativa nata per volontà delle professoresse Carla Chiappini e Laura Gaggini, che negli ultimi due anni hanno raccolto numerose interviste di coloro che, a vario titolo, abitano il “quartiere carcere”. Non solo i detenuti, dunque, ma anche i volontari, gli agenti di polizia penitenziaria, il personale sanitario, ecc. Nell’ambito del progetto, mi è stato chiesto di realizzare alcuni scatti dedicati, appunto, ai luoghi del carcere.

A partire da questa esperienza, vorrei rappresentare tramite immagini le norme dell’ordinamento penitenziario dedicate, appunto, ai luoghi (come le aree verdi, le stanze di pernotto, i camminamenti).

Come è stata accolta dall’esterno la sua volontà di dedicare un racconto fotografico al carcere? Quali commenti/critiche ha ricevuto?

Purtroppo esiste un pregiudizio importante nei confronti delle persone detenute. In linea generale, si preferisce parlare del crimine commesso piuttosto che del percorso che queste persone intraprendono per ripagare il proprio debito con la società.

È come se ci fosse una sorta di idea diffusa per cui quello dedicato ai detenuti è “tempo perso”. Al contrario, sulla base della mia esperienza di oltre nove anni di volontariato in carcere, posso dire che, se il carcere ha un senso, è solo per il cammino che le persone possono fare al suo interno.

Se scegliamo di non occuparci di loro, ecco che dal carcere usciranno persone che non hanno alcun futuro fuori.

Si preferisce parlare del crimine commesso piuttosto che del percorso che queste persone intraprendono per ripagare il proprio debito con la società. È come se ci fosse una sorta di idea diffusa per cui quello dedicato ai detenuti è “tempo perso”

Si preferisce parlare della recidiva che non di tutto quello che viene fatto all’interno del carcere perché la recidiva possa non esserci.

 

Ritiene che il carcere, così com’è oggi, sia effettivamente utile alla rieducazione dei detenuti e il loro reinserimento sociale?

Credo che il carcere resti in ogni caso una cicatrice indelebile, per quanto una persona possa uscirne e ricominciare la sua vita.

Il carcere va ripensato profondamente; d’altra parte, vivendo la realtà carceraria per tanti anni, ho scoperto quanto lavoro c’è dietro e quanto grati dovremmo essere nei confronti dei tanti soggetti che dedicano la loro vita alle persone recluse. Direttori illuminati, ma anche operatori penitenziari, volontari, ministri di culto, educatori. È quello che io chiamo “universo carcere”.

In sintesi, credo che la discussione sulla validità del carcere, su come il carcere “dovrebbe essere”, sia senz’altro importante; occorre però essere disposti, prima di tutto, a domandarsi cosa c’è dietro quel muro.

Credo che la discussione sulla validità del carcere, su come il carcere “dovrebbe essere”, sia senz’altro importante; credo anche, occorre però essere disposti, prima di tutto, a domandarsi cosa c’è dietro quel muro

Sulla base della sua esperienza, come “cambiano”, nel tempo, le persone che vivono ristrette in carcere?

Nell’ambito del laboratorio di lettura e scrittura creativa, incontriamo settimanalmente persone che, attraverso i loro scritti, testimoniano con chiarezza il cammino che stanno facendo; loro stessi si accorgono che, dai loro primi testi a quelli di due-tre anni dopo, sono nel frattempo diventati altre persone. Si tratta di un cammino di autoconsapevolezza.

Alcuni ci raccontano, addirittura, che per anni difendono dentro di sé il reato commesso e, solo dopo molto tempo, riescono finalmente a elaborarlo e a convincersi che possono essere altre persone, che non “sono più” il proprio crimine. In effetti, la grande delusione è che la nostra società, che si dice civile, non altrettanto disposta ad accettare questo.

Tutti noi avremmo diritto a una seconda chance.

 

C’è un episodio in particolare che vorrebbe condividere con noi?

Una cosa che mi ha colpito moltissimo è accaduta lo scorso settembre, quando ho dovuto raccogliere le liberatorie per la mostra al Museo Diocesano. È stata un’attività lunga e complessa, per la quale devo ringraziare gli ispettori della polizia penitenziaria, che si sono occupati di riconoscere tutte le persone ritratte nelle fotografie e hanno chiesto loro se fossero disposte a firmare la liberatoria. C’è stata una persona – peraltro detenuta in una sezione di alta sicurezza, dunque sottoposta a un controllo particolare da parte della polizia penitenziaria – che ha voluto incontrarmi di persona per dirmi che gli stavo facendo il più bel regalo che avesse mai ricevuto da quando era entrato in carcere. Il fatto, cioè, di aver ritenuto la sua immagine “degna” di essere portata fuori dal carcere come esempio di immagine positiva.


 

[1] Corte Europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, Causa Torreggiani e altri c. Italia, 8 gennaio 2013.

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