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04.03.2020
Redazione - Massimo Reichlin

Questioni di fine vita. Intervista a Massimo Reichlin

Domande in tema di non punibilità dell’aiuto al suicidio alla luce della recente decisione della Corte costituzionale (udienza del 25 settembre 2019)*

Fascicolo 3/2020

Abbiamo chiesto a Massimo Reichlin, Professore di filosofia morale presso la Facoltà di filosofia dell’Università Vita-Salute S. Raffaele di Milano con cattedra in etica della vita ed etica contemporanea, nonché docente di bioetica presso la Facoltà di medicina e chirurgia della medesima Università, di illustrarci il suo punto di vista professionale sulla recente statuizione della Consulta in materia di non punibilità dell’aiuto al suicidio a determinate condizioni.

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Nel comunicato diffuso dall’ufficio stampa della Consulta il 25 settembre a valle dell’udienza si legge: «la Corte ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli»[1].

Dal Suo punto di vista professionale, quali sono le principali implicazioni della suddetta decisione, sia sotto il profilo teorico sia a livello pratico?

La decisione della Corte rappresenta un’indubbia apertura nei confronti del suicidio medicalmente assistito e in questo senso costituisce una soluzione di continuità rispetto all’approccio etico e giuridico finora adottato nel nostro paese. Mi riferisco all’idea tradizionale, presente sia nelle concezioni morali diffuse sia nel dettato deontologico e legislativo, secondo cui il compito del medico è quello di difendere la vita e curare la malattia; eventualmente anche di accompagnare dignitosamente il paziente a una morte inevitabile, non però di cooperare affinché essa si realizzi più rapidamente.

Gli sviluppi tecnologici della medicina negli ultimi 70 anni hanno indubbiamente posto il problema del limite terapeutico, ossia di quali trattamenti, anche di sostegno artificiale delle funzioni essenziali alla vita, vadano attivati e mantenuti in essere, a fronte di condizioni cliniche precarie o francamente disperate. Le regola fin qui osservata, pienamente congruente con un approccio etico di tipo personalistico, rispecchiato anche dal dettato costituzionale, è stata quella di rispettare il legittimo desiderio di un paziente competente e adeguatamente informato di non voler prolungare in maniera indefinita la propria vita con presidi artificiali, a fronte di condizioni di malattia terminale o comunque di una qualità di vita decisamente compromessa. Questo approccio si sostanzia nel rifiuto deciso dell’ostinazione terapeutica, nel rispetto della libera scelta del paziente in ordine ai trattamenti e nell’accompagnamento alla morte attraverso l’attivazione di trattamenti di tipo palliativo e lenitivo dei sintomi.

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La legge 219 del 2017 ha dato piena attuazione a questa prospettiva, estendendo il diritto di non ricevere cure che non si desidera ricevere anche ai pazienti non più in grado di prendere decisioni autonome che però abbiano formalmente espresso le proprie volontà in merito attraverso una disposizione anticipata di trattamento. Restava tuttavia chiaramente esclusa dalla prospettiva della legge la possibilità di un contributo attivo, offerto dal medico, per affrettare il sopraggiungere del decesso; così va interpretato, io credo, il comma 6 dell’articolo 1 della suddetta legge, in base al quale «il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali».

La decisione del Consulta modifica questo quadro, rimuovendo il divieto di attiva cooperazione del medico nel procurare la morte, quanto meno con riferimento ai pazienti che versano nelle condizioni descritte, le quali ricalcano quelle presentate da Fabiano Antoniani nel caso che ha dato origine al pronunciamento. Dal punto di vista teorico, la rimozione di questo divieto costituisce, a mio avviso, un passo decisivo, nella misura in cui comporta una modifica di principio.

Mentre infatti la precedente configurazione di diritti e doveri di paziente e medico intendeva il rispetto per la persona, di cui parla l’art. 32 Cost., nel senso del diritto, da parte dei pazienti, di non essere costretti a ricevere trattamenti non desiderati e del dovere, da parte dei medici, di non obbligare nessuno a ricevere trattamenti, anche qualora da questa astensione o sospensione di terapie potesse derivare la morte, la decisione della Consulta riformula il senso in cui va inteso tale rispetto: esso si estende ora a ricomprendere il diritto dei pazienti (nelle condizioni descritte) a essere morti e il correlativo dovere dei medici di cooperare a questo risultato.

Benché infatti la Consulta cerchi di presentare quella del suicidio medicalmente assistito come una scelta terapeutica tra le altre, quando osserva che il vulnus alla libertà di autodeterminazione dell’Antoniani sarebbe consistito nell’imporgli un unico percorso che conduce alla morte, ossia quello più lungo, che passa per la rimozione del respiratore artificiale e per la pratica della sedazione terminale, in realtà ciò che la Consulta dichiara doversi offrire in alternativa al paziente è un atto che non ha in sé nulla di terapeutico, che non si riferisce in alcun modo a una scelta sui trattamenti, ma che mira per sua stessa natura a produrre la morte del paziente.

Ciò che la Consulta dichiara doversi offrire […] al paziente è un atto che non ha in sé nulla di terapeutico, che non si riferisce in alcun modo a una scelta sui trattamenti, ma che mira per sua stessa natura a produrre la morte del paziente

Un simile intervento contrasta direttamente con il senso della professione medica, quale fin qui è stato inteso, mirando a una sua riformulazione. Tale riformulazione, beninteso, è senza dubbio possibile, giacché la professione medica è un’istituzione umana storicamente determinata e modificabile; tuttavia, rappresenta un passo radicale, le cui conseguenze a lungo termine meritano di essere attentamente meditate.

Dal punto di vista pratico, le implicazioni di tale decisione riguardano l’effettiva possibilità di limitarne gli effetti. La Consulta ha sostanzialmente stabilito che il divieto di prestare aiuto al suicidio a un paziente che versi nelle condizioni definite dai quattro punti menzionati, viola il rispetto per la persona. Che si dovrà dire di situazioni molto simili a quella oggetto della decisione, nelle quali tuttavia l’uno o l’altro degli elementi menzionati siano assenti? È il caso, ad esempio, di Davide Trentini, malato di SLA, per il quale sono attualmente imputati, presso il Tribunale di Massa, Marco Cappato e Mina Welby[2]; manca, in questo caso, l’elemento della dipendenza da supporti di sostegno vitale che era invece presente nel caso Antoniani e che è richiamato dalla sentenza della Consulta.

La Consulta ha sostanzialmente stabilito che il divieto di prestare aiuto al suicidio a un paziente che versi nelle condizioni definite dai quattro punti menzionati, viola il rispetto per la persona. Che si dovrà dire di situazioni molto simili a quella oggetto della decisione, nelle quali tuttavia l’uno o l’altro degli elementi menzionati siano assenti?

La logica del caso, tuttavia, appare la medesima: se si ammette che i soggetti in condizioni dolorose e precarie abbiano il diritto non alla sospensione di ogni trattamento, ma a ricevere un aiuto attivo per provocare la loro morte, è difficile vedere perché la presenza di un sostegno artificiale dovrebbe essere considerata decisiva.

Se il principio che giustifica l’intervento del medico non è più quello della libera scelta delle terapie e quindi del diritto di rifiutarle tutte, ma quello del diritto di morire, è dubbio che tale diritto possa essere condizionato dalla presenza o assenza di un trattamento di sostegno vitale. Di più, è anche difficile vedere, una volta ammesso tale principio, perché si dovrebbe continuare a considerare illecito l’intervento diretto del medico attivamente volto a causare la morte del paziente.

Sembra infatti che il permanere di tale divieto, previsto dall’art. 579 c.p., configuri un’oggettiva diseguaglianza di opportunità tra coloro che sono ancora in grado di attivare personalmente il processo che li condurrà a morte e coloro che non lo sono; in altri termini, se si eleva la scelta di morire alla stregua di un diritto fondamentale e si afferma la compatibilità dell’esercizio della professione medica con la cooperazione a procurare la morte, sembra difficile che il sospetto d’incostituzionalità non debba alla fine investire anche l’art. 579, portando inevitabilmente alla legalizzazione dell’eutanasia.

È […] difficile vedere […] perché si dovrebbe continuare a considerare illecito l’intervento diretto del medico attivamente volto a causare la morte del paziente. Sembra infatti che il permanere di tale divieto, previsto dall’art. 579 c.p., configuri un’oggettiva diseguaglianza di opportunità tra coloro che sono ancora in grado di attivare personalmente il processo che li condurrà a morte e coloro che non lo sono

Marco Cappato, a seguito della pronuncia della Consulta, ha rilasciato, tramite social network, la seguente dichiarazione: «la Consulta ha deciso […]. Da oggi siamo tutti più liberi».

Qual è la Sua opinione in merito alla suddetta affermazione? 

 Con il massimo rispetto per chi l’ha pronunciata, e per tutti coloro che ne condividono la battaglia, mi pare un’affermazione francamente discutibile. È senza dubbio vero che ai pazienti che si trovano in condizioni gravemente dolorose e che vogliono accedere al suicidio medicalmente assistito è garantita una libertà di scelta che prima non c’era; e lo stesso vale per tutti coloro i quali, in futuro, vorranno fare lo stesso.

Va tenuto conto, però, anche del numero molto più elevato di pazienti in condizioni simili che desiderano continuare a vivere e richiedono legittimamente di ricevere il massimo livello di cure possibili nella loro condizione; la vera libertà, per costoro, è poter usufruire dei migliori servizi possibili in termini di cure personali, con particolare riferimento al trattamento dei sintomi fisici e psicologici e al mantenimento di una sufficiente qualità della vita.

Per costoro la decisione della Consulta non rappresenta alcun incremento di libertà. Se poi si tiene conto del fatto che, come detto, il percorso che è stato intrapreso con questa decisione è foriero di possibili scivolamenti verso pratiche sempre più diffuse di soppressione attiva dei pazienti e che, in particolare, le pratiche di eutanasia sono per loro natura assai difficili da controllare e da mantenere nei limiti definiti, le conseguenze della decisione assunta possono apparire controverse e l’enfasi positiva sul carattere liberale della decisione può apparire dubbia.

 

Per espressa statuizione formulata dalla Corte costituzionale nel comunicato stampa di cui sopra, la decisione in ordine alla non punibilità dell’aiuto al suicidio a determinate condizioni deve ritenersi valida «nell’attesa di un indispensabile intervento del legislatore» volto a disciplinare la materia del fine vita.

Quali sono, a Suo avviso, i principali aspetti e i profili critici sui quali l’eventuale intervento legislativo dovrebbe focalizzare maggiormente l’attenzione?

I profili fondamentali di cui l’intervento legislativo dovrebbe farsi carico sono indubbiamente quelli individuati dalla stessa sentenza. In primo luogo, è assolutamente necessario che si individui un percorso preciso di verifica della sussistenza della determinazione suicidaria nel paziente; e soprattutto si verifichi che il carattere autonomo, informato, non dipendente da condizioni psicologiche o psichiatriche possibilmente trattabili o comunque transitorie di tale determinazione. È evidente che l’informazione in questione dovrebbe soprattutto includere la prospettazione delle possibilità alternative, soprattutto in ordine alle cure palliative, all’assistenza domiciliare e alla possibilità di ricovero in strutture specificamente dedicate alla tutela della qualità della vita.

È assolutamente necessario che si individui un percorso preciso di verifica della sussistenza della determinazione suicidaria nel paziente; e soprattutto si verifichi che il carattere autonomo, informato, non dipendente da condizioni psicologiche o psichiatriche possibilmente trattabili o comunque transitorie di tale determinazione

Questo percorso di informazione e decisione deve trovare adeguato svolgimento in un contesto sanitario attrezzato a svolgerlo, con il coinvolgimento di figure professionali adatte, inclusa la consulenza di un comitato etico. A questo riguardo va osservato, per inciso, che la reiterata menzione del «comitato etico territorialmente competente» nella decisione della Consulta risulta sorprendente, dal momento che i comitati etici hanno bensì una regolamentazione precisa per quanto concerne la revisione dei protocollo di sperimentazione clinica, ma non sono affatto disciplinati per riferimento alla consulenza clinica; non si vede, perciò, a quale entità ci si richiami parlando di comitati etici territorialmente competenti, tenendo conto che, se un ospedale non si occupa di ricerca clinica, non c’è alcun comitato del territorio cui esso debba istituzionalmente far riferimento.

La legge dovrebbe poi senz’altro stabilire se il suddetto percorso di verifica, nonché la realizzazione della prestazione in oggetto, possano avvenire in qualunque struttura sanitaria ovvero debba essere riservato alle strutture sanitarie pubbliche

La reiterata menzione del «comitato etico territorialmente competente» nella decisione della Consulta risulta sorprendente, dal momento che i comitati etici […] non sono affatto disciplinati per riferimento alla consulenza clinica; non si vede, perciò, a quale entità ci si richiami parlando di comitati etici territorialmente competenti

Dovrebbero poi senza dubbio essere precisati le condizioni e i limiti dell’obiezione di coscienza, che la sentenza introduce in maniera assai rapida, dandola quasi per scontata; da un lato, è ovvio che tale previsione non è in realtà affatto scontata, ma oggettivamente controversa, tanto che essa non è prevista, ad esempio, nella legge 217; dall’altro, essa andrebbe attentamente configurata per evitare le controversie che attualmente circondano l’obiezione di coscienza nel caso dell’interruzione volontaria della gravidanza.

Quanto infine all’ipotesi, affacciata dalla stessa sentenza, di introdurre la disciplina in questione non attraverso una modifica dell’art. 580 c.p. ma attraverso una modifica della legge 219 del 2017, a me pare che, per le ragioni dette, si tratterebbe di accostare due prospettive profondamente diverse o, se si vuole, di snaturare lo spirito della suddetta legge, spirito cui invece la sentenza fa riferimento. La questione delle disposizioni anticipate di trattamento si inerisce nel quadro del rapporto terapeutico e della scelta in ordine ai trattamenti; configurare il suicidio medicalmente assistito come un trattamento sanitario mi pare invece una scelta profondamente discutibile.

 

Eventuali considerazioni ulteriori?

La gestione della fase finale della vita, nell’odierno contesto di una medicina fortemente tecnologizzata, ha un grande rilievo e implicazioni di carattere generale sull’immagine e la concezione della nostra società. Il sistema sanitario italiano è improntato a una concezione che pone al centro la persona e il diritto alla salute; le nozioni di equità e solidarietà sono costantemente al centro delle politiche sanitarie e la considerazione della vulnerabilità delle persone malate ha da sempre svolto un ruolo non secondario nella definizione delle politiche pubbliche. In anni recenti, l’intero sistema è stato sottoposto a tensioni sempre più forti e ha subito ridimensionamenti e correzioni, nell’ottica di una razionalizzazione della spesa che però ha anche significato una sostanziale riduzione della sua dimensione universalistica.

L’introduzione di margini sempre più ampi di scelta individuale, in ossequio alla centralità oggi riconosciuta al principio etico di autonomia, è pienamente compatibile con l’orizzonte personalistico e solidaristico di cui sopra. Tuttavia, la spinta verso una riconfigurazione del sistema in senso più strettamente individualistico, come luogo che deve soprattutto garantire la soddisfazione dei diritti insindacabili degli individui, rischia di modificare profondamente le basi morali e politiche su cui si il sistema sanitario si è finora fondato.

L’introduzione di margini sempre più ampi di scelta individuale, in ossequio alla centralità oggi riconosciuta al principio etico di autonomia, è pienamente compatibile con l’orizzonte personalistico e solidaristico […]. Tuttavia, la spinta verso una riconfigurazione del sistema in senso più strettamente individualistico, come luogo che deve soprattutto garantire la soddisfazione dei diritti insindacabili degli individui, rischia di modificare profondamente le basi morali e politiche su cui si il sistema sanitario si è finora fondato

In questa prospettiva, il rischio concreto che a me pare di scorgere nel percorso di liberalizzazione delle decisioni di fine vita intrapreso dalla decisione della Consulta è quello di modificare radicalmente le priorità valoriali, mettendo in posizione subordinata i valori della solidarietà sociale, dell’impegno del sistema a garantire a tutti eque opportunità di cura e soprattutto della preoccupazione prioritaria per le condizioni di vulnerabilità fisica, psicologica, sociale ed economica.

Da questo punto di vita, credo che si debba svolgere una riflessione seria sugli effetti a lungo termine delle decisioni assunte, perché la loro adozione sia quanto più possibile consapevole.


 

* Lo scorso 25 settembre, la Corte costituzionale si è riunita in camera di consiglio per esaminare le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’assise di Milano sull’articolo 580 del Codice penale riguardanti la punibilità dell’aiuto al suicidio di chi sia già determinato a togliersi la vita.

[1] Il comunicato è accessibile a questo link.

[2] Per un approfondimento si veda, tra gli altri, l’articolo Davide Trentini: il processo contro Mina Welby e Marco Cappato, pubblicato sul sito dell’ Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, unitamente al decreto di giudizio immediato nei confronti dei due imputati.

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