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Fascicolo 7-8/2019

Pubblichiamo, per gentile concessione editoriale, la nostra traduzione dell’articolo di W.D. Ruckelshaus[1], Risk in a Free Society[2], in Risk Analysis, Vol. 4, n. 3, 1984.

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È ormai un luogo comune del discorso politico affermare che i progressi tecnologici hanno avuto un profondo impatto sulle nostre istituzioni democratiche. La comunicazione di massa è un tipico esempio. Vorrei però richiamare la vostra attenzione su un altro aspetto di come la tecnologia può incidere su una società democratica, un aspetto forse altrettanto serio, seppure più sottile; un aspetto che ha catturato gran parte della mia stessa attenzione. Mi riferisco ai prodotti chimici e ai sottoprodotti della tecnologia moderna, e ai potenziali danni sociali associati ai processi che abbiamo creato per controllarli.

Quando ho assunto il mio attuale e secondo incarico come presidente dell’EPA, il mio primo obiettivo era quello di ripristinare la fiducia del pubblico nei confronti dell’Agenzia, ed ero fermamente convinto che rimettere mano al modo in cui avevamo gestito il rischio sanitario fosse fondamentale per raggiungere quell’obiettivo. Lo scopo primario dell’EPA, inutile dirlo, è la riduzione del rischio, sia per la salute pubblica sia per l’ambiente. Alcuni, in America, erano spaventati. Temevano che le sostanze chimiche tossiche presenti nell’ambiente incidessero sulla loro salute e, cosa ancora più importante, sospettavano che le conoscenze sui rischi derivanti da tali sostanze chimiche non fossero loro comunicati chiaramente, che in queste comunicazioni venisse fatto ricorso in modo inappropriato a considerazioni politiche, in modo da far apparire i rischi inferiori a quelli che erano in realtà, e dispensare così l’Agenzia dall’intraprendere azioni. Peggio ancora, alcune persone erano convinte che le procedure che avevamo messo a punto per proteggere la salute pubblica venissero strumentalizzate per conseguire meri vantaggi politici.

Il fatto che ciò fosse vero o meno è quasi irrilevante ai nostri fini; un numero considerevole di persone ci ha creduto. Ora, in una società come la nostra, dove alla fine è ai cittadini che competono le scelte politiche – ciò che, cioè, si vuole che venga fatto su una particolare questione –, l’illustrazione corretta delle diverse scelte politiche è compito degli enti pubblici. L’ente pubblico è il custode dei fatti; non si può operare in una società democratica, specie in una società tecnologica complessa, se non si dispone di un simile custode. Soprattutto, il guardiano dei fatti deve essere affidabile, la perdita della fiducia genera il caos. Il caos, a sua volta, genera una propria sete di ordine, una bramosia che, nelle sue forme più estreme, minaccia il fondamento stesso della libertà democratica. In una democrazia, quindi, un’agenzia pubblica di cui non ci si fida, soprattutto per quanto riguarda la tutela della salute pubblica, farebbe meglio a chiudere i battenti.

Ho proposto una possibile soluzione a questo problema lo scorso giugno in un discorso alla National Academy of Sciences. In un recente report, la National Academy ha rilevato che le agenzie federali hanno spesso confuso la valutazione del rischio con la gestione del rischio. La valutazione del rischio è l’uso di una base di evidenze scientifiche per definire la probabilità che un individuo o una popolazione subisca un danno in conseguenza dell’esposizione a una sostanza o situazione. La gestione del rischio, invece, è il processo, di natura pubblica, tramite il quale si decide cosa fare laddove si è accertata l’esistenza di un rischio. Esso integra la valutazione del rischio con considerazioni di fattibilità tecnica e stabilisce come soddisfare il nostro compito di ridurre i rischi alla luce di fattori sociali, economici e politici.

Nel report si proponeva una formale separazione di queste due funzioni da parte delle agenzie regolatorie. Io ho detto che mi sembrava una buona idea e che avremmo cercato attuarla all’interno dell’EPA. La proposta era allettante perché le procedure seguite da molte Agenzie regolatorie federali di solito impongono di agire quando l’indagine scientifica accerta la presenza di un rischio, come quando, ad esempio, una sostanza presente nell’ambiente, sul posto di lavoro o nella filiera alimentare, risulta causare il cancro negli animali. La procedura può esigere che l’agenzia agisca in conformità a una serie di misure di protezione: stabilire “margini di sicurezza”, “prevenire un rischio significativo”, o “eliminare il rischio”.

Quando l’azione, così impostata, ha conseguenze economiche o sociali disastrose, il soggetto deputato ad assumere la decisione può essere fortemente tentato di chiedere una “reinterpretazione” dei dati. Dovremmo ricordare che i dati del risk assessment possono essere come una spia prigioniera: se la torturate abbastanza a lungo, vi dirà tutto quello che volete sapere. Strutturare un’agenzia in modo tale da evitare tale tentazione rappresenta quindi una buona politica pubblica.

Dovremmo ricordare che i dati del risk assessment possono essere come una spia prigioniera: se la torturate abbastanza a lungo, vi dirà tutto quello che volete sapere

Tuttavia, abbiamo scoperto che, nella pratica, è piuttosto difficile separare la valutazione del rischio dalla sua gestione. In primo luogo, anche i giudizi di valore, che dovrebbero rimanere confinati nell’ambito della gestione del rischio, in realtà influenzano in modo rilevante i risultati delle valutazioni del rischio. Per esempio, supponiamo che una sostanza chimica di uso comune venga testata su animali da laboratorio con l’obiettivo di determinare se possa causare il cancro. Poniamo che, al termine del test, una parte degli animali che sono stati esposti alla sostanza mostra segni di formazione di tumori.

Qui iniziano i problemi. In primo luogo, in test come questi, le dosi somministrate sono estremamente elevate, spesso vicine a quella che l’animale può tollerare per tutta la vita senza morire a causa di effetti tossici non cancerogeni. Le esposizioni ambientali sono in genere molto più basse, quindi, per determinare quale sia il rischio di cancro ad esposizioni così basse – cioè per determinare la curva che mette in relazione una certa dose ad una certa risposta –, dobbiamo fare delle deduzioni a partire dai dati di laboratorio relativi alle alte dosi di esposizione. A tal fine, esistono diversi modelli statistici che, tutti, da un lato si adattano ai dati e, dall’altro lato, possono essere messi in discussione. Semplicemente non sappiamo quale sia la forma della curva dose-risposta a basse dosi, nello stesso modo in cui non sappiamo, diciamo così, quale sarà la traiettoria di un satellite se lo spariamo in orbita.

In secondo luogo, dobbiamo affrontare le incertezze che riguardano la possibilità di estrapolare all’uomo i dati relativi alla cancerogenicità per gli animali, ad esempio, determinando quale dei molti tipi diversi di lesioni che possono comparire negli animali sia effettivamente indicativo della probabilità che la sostanza in questione possa essere causa del cancro nell’uomo. Un cancro è un cancro per l’opinione pubblica, ma non per il patologo.

Infine, dobbiamo affrontare le incertezze relative all’esposizione. Dobbiamo determinare, di solito sulla base di dati molto scarsi e di modelli matematici molto complessi, in che quantità viene prodotta la sostanza, come viene dispersa, modificata o distrutta dai processi naturali, e come la dose che le persone effettivamente assumono varia in base alle caratteristiche comportamentali o a quelle della popolazione.

L’insieme di tutte queste incertezze riguardanti la valutazione dei rischi conduce, nella maggior parte dei casi, alla produzione di un’ampia gamma di stime dei rischi. Ad esempio, nel report della National Academy of Sciences sulla saccarina si è giunti alla conclusione che nei prossimi 70 anni il numero previsto di casi di tumore alla vescica derivante dall’esposizione giornaliera a 120 mg di saccarina potrebbe variare da 0,22 a 1.144.000. Questo tipo di intervallo è scarsamente utilizzabile dai legislatori, e gli scienziati che si occupano di risk assessment si sforzano di operare scelte tra i vari risultati possibili in modo da produrre conclusioni che, dal punto di vista scientifico, siano allo stesso tempo sostenibili e utilizzabili.

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Tali scelte sono influenzate da valori, che possono derivare dalla formazione professionale o dalle idee su ciò che costituisce la “buona scienza” oltre che, naturalmente, dallo stesso complesso di esperienze e tratti individuali che danno origine ai valori personali che caratterizzano ognuno di noi. Un oncologo, ad esempio, che valorizza molto la capacità di distinguere tra diversi tipi di lesioni, può non tenere conto di alcuni risultati dei test in quanto irrilevanti per le decisioni sulla cancerogenicità umana. Un epidemiologo della sanità pubblica può esaminare gli stessi dati e giungere a conclusioni anche molto diverse.

Storicamente all’EPA è stato ritenuto prudente fare quelle che sono state definite ipotesi conservatrici; cioè, i nostri valori ci portano, in una situazione di inevitabile incertezza, a esprimere le nostre conclusioni in termini di un limite massimo plausibile. Questo significa che quando si genera un numero che esprime la potenza di qualche sostanza nel causare la malattia, possiamo affermare che è improbabile che il rischio previsto sia maggiore.

Il che va bene quando i rischi previsti sono contenuti; è sempre bello sapere che alcune sostanze chimiche non possono causare un disastro nazionale. Ma quando i rischi stimati attraverso tali valutazioni sono significativi, tali da determinare l’avvio di procedure specifiche, l’accumularsi di ipotesi conservatrici diventa un problema per il legislatore. Se ho intenzione di proporre controlli che possono avere effetti economici e sociali importanti, devo avere un’idea di quanto si possa fare affidamento sulle stime di rischio che hanno indotto ad effettuare tali controlli. Bisogna sapere quanto è probabile che si verifichino danni reali nei casi non sottoposti a controllo, in quelli che lo sono parzialmente, e in quelli interamente controllati. Solo allora potrò compiere i giudizi di bilanciamento che sono l’essenza del mio lavoro. Questo, naturalmente, tende a porre nuovamente il legislatore al centro del processo di valutazione del rischio, cosa che – come abbiamo già stabilito – non è affatto una scelta saggia.

È un vero dilemma. Io credo che la strada principale per uscirne sia rappresentata da un netto miglioramento del modo in cui comunichiamo al pubblico la realtà dei fatti con riferimento alle analisi dei rischi. L’obiettivo è la comprensione da parte del pubblico. Manterremo la flessibilità amministrativa di cui abbiamo bisogno per proteggere efficacemente la salute e il benessere pubblici solo se i cittadini riterranno che stiamo facendo in modo di agire nell’interesse pubblico. C’è una tesi, in contraddizione con quanto appena sostenuto, secondo cui il modo migliore per ottenere la predetta protezione sarebbe quello di garantire una maggiore specificità legislativa, che indichi di preciso all’Agenzia che cosa controllare e in che misura. Se non riusciamo a ottenere la fiducia del pubblico, questa argomentazione prevarrà e, a mio avviso, sarebbe un male. Non è possibile ridurre la complessità insita nella gestione dei rischi ambientali alle pagine di una legge.

Come possiamo, dunque, aumentare il grado di fiducia? In linea di massima, ci sono due modi per farlo. In primo luogo, potremmo affidare la tutela dell’integrità dell’Agenzia – e, in particolare, il compito di valutazione dei rischi – ad un gruppo di esperti imparziali che siano irreprensibili agli occhi del pubblico. Si tratterebbe di un approccio para-giudiziario, altamente qualificato, che ha una solida tradizione nella nostra società. Se ci troviamo di fronte a una questione complessa, non dobbiamo pensarci troppo, basta sottoporla agli esperti, che decidono e forniscono la risposta, che quasi tutti accetteranno in considerazione del prestigio intrinseco del gruppo di esperti.

Il disagio associato all’immagine di un conclave di “Grandi Fratelli” che, nel 1984, veglia su di noi, non fa che rafforzare la mia convinzione che tali gruppi di esperti non possono servire allo scopo di ristabilire e mantenere la fiducia dei cittadini. Si è infatti scoperto che gli esperti spesso non sono d’accordo tra di loro, quindi, invece di un consenso inattaccabile e imparziale, si ottengono delle opinioni contrastanti. Ancora una volta, anche gli esperti sono portatori di valori.

In alternativa, potremmo imparare a gestire il rischio in maniera più intelligente. L’Agenzia potrebbe fare molto di più per spiegare cosa sta facendo e cosa sa e non sa. Non parlo “coinvolgimento pubblico” nel senso consueto e formale del termine. Ciò fa parte del diritto amministrativo ed è sempre stato parte della nostra procedura ordinaria per la promulgazione delle leggi. Né intendo una semplice campagna di pubbliche relazioni finalizzata alla divulgazione delle decisioni dell’Agenzia. Le relazioni pubbliche tendono a indorare la pillola. Penso che dovremmo scavare più a fondo. Dobbiamo esporre le ipotesi che confluiscono nella valutazione dei rischi. Dobbiamo ammettere le nostre incertezze e mostrare al pubblico la complessità delle decisioni riguardanti il rischio.

Vivere in una società tecnologica è come cavalcare un cavallo selvaggio. Non credo che possiamo permetterci di scendere, e dubito che apparirà magicamente qualcuno in grado di tenerlo al guinzaglio. La domanda è: come possiamo diventare migliori domatori? Credo che gran parte della soluzione stia nel migliorare sensibilmente la qualità del dibattito pubblico sui rischi ambientali.

Vivere in una società tecnologica è come cavalcare un cavallo selvaggio

Non sarà facile. La valutazione del rischio è un calcolo probabilistico, ma le persone non rispondono ai rischi “come dovrebbero” se tali calcoli fossero l’unico criterio di razionalità. La maggior parte delle persone non ha dimestichezza a ricorrere alla probabilità matematica come guida per vivere, e il gergo della valutazione dei rischi che utilizziamo con loro di certo non li fa sentire maggiormente a proprio agio. Provate a dire a qualcuno che il rischio di cancro da un’esposizione di 70 anni ad un agente cancerogeno a livelli ambientali varia tra 10-5 e 10-7’, e probabilmente vi incalzerà con: “Sì, ma mi ammalerò di cancro se bevo l’acqua?”. Inoltre, gli atteggiamenti nei confronti del rischio sono soggettivi e fortemente influenzati dall’esperienza personale e da altri fattori non pienamente tenuti in considerazione dalle valutazioni del rischio.

Alcune ricerche sul tema indicano che le persone tendono a sopravvalutare la probabilità di eventi rari, catastrofici e di dominio pubblico e a sottovalutare la probabilità di eventi ordinari o diffusi che colpiscono una sola vittima. Molte persone hanno paura di volare con le compagnie aeree di linea, ma praticamente nessuno ha paura di guidare in auto, una vittoria della soggettività sulle statistiche attuariali.

In generale, la risposta ai rischi è maggiormente negativa quando il grado di rischio è sconosciuto e le conseguenze sono particolarmente temute. La valutazione degli esperti non sembra essere d’aiuto in questo caso. La gente combatterà come una furia per tenere fuori dal proprio quartiere una struttura per rifiuti pericolosi, nonostante gli esperti abbiano garantito la sua sicurezza, mentre le persone che vivono sotto alte dighe situate in corrispondenza di faglie sismiche prestano poca attenzione agli avvertimenti degli esperti.

La valutazione del rischio è un calcolo probabilistico, ma le persone non rispondono ai rischi “come dovrebbero” se tali calcoli fossero l’unico criterio di razionalità. La maggior parte delle persone non ha dimestichezza a ricorrere alla probabilità matematica come guida per vivere, e il gergo della valutazione dei rischi che utilizziamo con loro di certo non li fa sentire maggiormente a proprio agio

Altre caratteristiche del pericolo influenzano la percezione del rischio da parte dell’opinione pubblica. Ad esempio, la natura volontaria o involontaria del rischio è importante. Le persone accettano rischi molto maggiori guidando un’automobile piuttosto che respirando le emissioni che fuoriescono dal tubo di scarico; il primo rischio è volontario, il secondo involontario. Le persone prendono anche in considerazione se il rischio è distribuito in generale su tutta la popolazione o colpisce solo un piccolo gruppo identificabile. La risposta dei cittadini alla scoperta di una sostanza tossica che può provocare altri 200 tumori a livello nazionale può essere molto diversa dalla reazione provocata dallo stesso numero di casi in una provincia con una popolazione, ad esempio, di 3.000 abitanti.

Anche il modo in cui sono presentati i rischi e le opzioni percorribili influenza le percezioni delle persone. Potreste essere preoccupati se vi venisse detto che l’esposizione professionale sul vostro posto di lavoro ha raddoppiato il rischio di qualche malattia grave; probabilmente sareste meno preoccupati se veniste a sapere che il rischio è aumentato da uno su un milione a due su un milione. Le indagini condotte utilizzando i medici come soggetti di studio hanno rilevato che le loro preferenze per le opzioni terapeutiche sono cambiate notevolmente quando i rischi connessi a queste opzioni sono stati espressi in termini di vite salvate piuttosto che in termini di decessi, anche se le due forme di espressione, confrontate tra loro, erano matematicamente identiche. Infine, la ricerca ha dimostrato che le credenze sul rischio cambiano lentamente e hanno una resistenza straordinaria a fronte di prove contrarie.

Molte persone interessate alla protezione dell’ambiente, dopo aver osservato questo caos, concludono che le considerazioni sul rischio non portano a nulla di utile. Dopo tutto, se le statistiche non sono utili e l’intera questione è così confusa, perché non eliminare tutte le esposizioni a sostanze tossiche nella misura in cui la tecnologia lo consente? Il problema di questa riflessione è che, anche lasciando da parte quanto ho appena detto sulla necessità di migliorare il dibattito nazionale sull’argomento, le stime dei rischi sono l’unico modo per indirizzare l’attenzione delle agenzie di gestione dei rischi verso problemi significativi.

Ci sono migliaia di sostanze nell’ambiente che risultano essere tossiche per gli animali; non possiamo lavorare su tutte in una volta sola, anche con un’EPA dieci volte più grande di quella attuale. Ma ciò che è più importante è che la tecnologia non fa sì che quel che ci fa male “sparisca”; nella maggior parte dei casi fa solo in modo che quelle cose cambino forma e posizione. Dobbiamo iniziare a tenere traccia del flusso di sostanze tossiche nell’ambiente, fino a monitorare anche quello che succede dopo che sono state “controllate”. La gestione del rischio è l’unico modo che conosco per farlo.

In situazioni confuse bisogna cercare di lasciarsi guidare da principi di base. Uno dei miei principi fondamentali si riflette in una citazione di Thomas Jefferson: «Se pensiamo che il popolo non sia abbastanza illuminato da esercitare il proprio controllo con un sano giudizio, il rimedio non è togliergli il controllo, ma formare il loro giudizio». Facile a dirsi. Come abbiamo visto, l’attività di formazione in merito al giudizio sul rischio ha alte probabilità di fallimento.

Se pensiamo che il popolo non sia abbastanza illuminato da esercitare il proprio controllo con un sano giudizio, il rimedio non è togliergli il controllo, ma formare il loro giudizio

Thomas Jefferson

Tuttavia, abbiamo qualche esperienza recente che supporta la convinzione che una migliore informazione induca le persone ad agire in modo più avveduto. A Tacoma, Washington, una fonderia di rame che impiega circa 600 persone emette notevoli quantità di arsenico, che è una sostanza cancerogena per l’uomo. Abbiamo scoperto che la migliore tecnologia disponibile non ha ridotto il rischio di cancro a livelli che il pubblico potrebbe trovare accettabili. In realtà, sembrava che la riduzione a livelli di rischio accettabili sarebbe stata possibile solo se l’impianto fosse stato chiuso. Mi sono convinto che le persone di Tacoma, la cui vita stava per essere influenzata dalla mia decisione, avrebbero dovuto avere una conoscenza più approfondita del caso di quanto non potessero apprendere dalle ordinarie audizioni pubbliche.

Di conseguenza, abbiamo organizzato una straordinaria campagna di educazione pubblica a Tacoma. Oltre all’audizione pubblica richiesta, abbiamo fornito enormi quantità di informazioni a tutti i mezzi di comunicazione, abbiamo organizzato incontri tra i leader della comunità e gli alti funzionari dell’EPA, me compreso, e abbiamo organizzato tre workshop in cui abbiamo esposto il nostro punto di vista.

Penso che la maggior parte delle persone abbia apprezzato questa opportunità e noi abbiamo certamente alzato il livello della discussione sul rischio. Un evento di questo genere è parso così insolito che alcuni hanno pensato che io stessi rinunciando ad assumermi le mie responsabilità per questa decisione, o che i cittadini di Tacoma avrebbero dovuto scegliere tra il lavoro e la salute. Dopo una certa confusione iniziale su questo punto, abbiamo chiarito che è stata una decisione esclusivamente mia e che ero disposto ad ascoltare, ma che avrei poi deciso in autonomia.

Anche se suppongo che alcuni sarebbero stati più contenti di continuare a credere che avremmo potuto garantire la sicurezza assoluta con assoluta certezza, ed erano disturbati da questo nostro modo di procedere, tutto sommato direi che si è trattato in parte di un successo. I partecipanti sono riusciti a comprendere meglio l’anatomia delle decisioni in tema di ambiente, e i gruppi locali sono stati in grado di proporre alternative in grado di aumentare il livello di protezione, consentendo al tempo stesso di mantenere aperto l’impianto, alternative che vale la pena di prendere in considerazione ai fini della nostra decisione finale.

Qual è l’insegnamento di Tacoma? Poco dopo l’inizio dei workshop, le persone hanno iniziato a indossare distintivi con la parola “entrambi”, nel senso che sceglievano sia il lavoro che la salute. Ho considerato un buon segno il fatto che la gente si occupasse della questione del bilanciamento tra le realtà economiche e la protezione ambientale. “Entrambi” è una buona risposta, e nella maggior parte dei casi possiamo avere entrambe le cose, se siamo abbastanza intelligenti. Un altro insegnamento è che dobbiamo migliorare il modo in cui presentiamo al pubblico il calcolo dei rischi. In precedenza c’era un’eccessiva tendenza a tradurre i rischi di cancro in casistica, senza riguardo alle ipotesi ammissibili e alle incertezze. Le minacce di cancro hanno una grande eco mediatica e la tendenza a dedurre delle certezze dove non ve ne sono è molto forte. Dobbiamo prendere sul serio il nostro obbligo, quando si parla di rischio, di rilasciare dichiarazioni chiare ed inequivocabili. Infine, Tacoma è la dimostrazione che dobbiamo prepararci ad altri casi come quello di Tacoma. Lo stress ambientale riguarda in modo disomogeneo il territorio e noi abbiamo una responsabilità particolare nei confronti delle persone che vivono nelle comunità che sono colpite più duramente. Siamo pronti a compiere maggiori sforzi in queste comunità, come abbiamo fatto a Tacoma.

Dobbiamo anche migliorare il dibattito a livello nazionale. Questo potrebbe rivelarsi più difficile, visto che Washington è un luogo più litigioso. Inoltre, a livello nazionale le cose tendono ad essere estremizzate forse più di quanto dovrebbero, considerato quanto sappiamo sulle questioni di salute ambientale. In genere, quando si acquisisce la prova di una minaccia ambientale, l’opinione si divide tra coloro che vogliono eliminare il rischio il più rapidamente possibile, con poca preoccupazione per i costi, e coloro che negano l’esistenza della minaccia. Le dispute tra questi gruppi possono durare a lungo, e durante questo tempo l’oggetto dello scontro, l’inquinante, rimane nell’ambiente. Le piogge acide rischiano di diventare oggetto di questo tipo di discussioni.

Un altro insegnamento è che dobbiamo migliorare il modo in cui presentiamo al pubblico il calcolo dei rischi. In precedenza c’era un’eccessiva tendenza a tradurre i rischi di cancro in casistica, senza riguardo alle ipotesi ammissibili e alle incertezze. Le minacce di cancro hanno una grande eco mediatica e la tendenza a dedurre delle certezze dove non ve ne sono è molto forte

Simile è anche il caso dell’etilene dibromide (dibromuro di etilene). Come forse sapete, abbiamo recentemente vietato i principali usi dell’EDB, un fumigante per cereali e frutta che è stato dichiarato cancerogeno e che entra nella catena alimentare umana attraverso i residui negli alimenti e la contaminazione delle acque sotterranee. Con questo divieto, che si applicava alla fumigazione dei cereali, abbiamo assicurato che l’EDB sarebbe immediatamente diminuito negli alimenti destinati all’uomo. Poiché c’è ancora EDB nei prodotti a base di cereali già in magazzino o sugli scaffali dei negozi alimentari, abbiamo fissato i livelli massimi di residui accettabili per i diversi prodotti, mentre i livelli si abbassano nei prodotti più vicini al luogo di consumo. Agiremo presto sull’uso dell’EDB come fumigante di agrumi, il suo unico uso rimanente nell’ambito della catena alimentare umana.

Inutile dire che siamo stati criticati sia per essere andati troppo oltre, sia per non essere andati abbastanza lontano. Tuttavia, in casi come questo, la mia personale predilezione è quella di evitare gli eccessi e di agire per ridurre il più rapidamente possibile l’esposizione ambientale a sostanze che appaiono inaccettabilmente rischiose, e di farlo con il minor disturbo sociale o economico possibile. Ciò, in generale, non soddisfa nessuno, ma sono convinto che soddisfi l’interesse pubblico di lungo periodo.

Di insoddisfacente nel caso dell’EDB c’era la sostanziale confusione circa i problemi di rischio in questione. Alcuni dicono che apriamo il vaso di Pandora quando divulghiamo i nostri giudizi sul rischio. Penso che dobbiamo fare meglio di quanto abbiamo fatto. Permettetemi ora di proporre alcuni principi per discussioni più ragionevoli sul rischio.

In primo luogo, dobbiamo insistere affinché i calcoli del rischio siano espressi come distribuzioni di stime e non come numeri magici che possono essere manipolati senza tener conto del loro reale significato. Dobbiamo cercare di esporre stime di rischio più realistiche per presentare una serie di probabilità. Per fare questo abbiamo bisogno di nuovi strumenti per quantificare e ordinare le fonti di incertezza e per metterle in prospettiva.

In secondo luogo, dobbiamo esporre al controllo pubblico le ipotesi che sono alla base della nostra analisi e gestione il rischio. Se abbiamo fatto una serie di ipotesi conservative nell’ambito della valutazione del rischio, in modo che rappresenti un limite massimo plausibile nella stima del rischio, dovremmo cercare di comunicarlo e spiegare perché l’abbiamo fatto. Sebbene la protezione della salute pubblica sia il nostro obiettivo primario, qualsiasi azione specifica di controllo su di un inquinante può avere effetti su altri valori, come la stabilità della comunità, l’occupazione, le risorse naturali o l’integrità dell’ecosistema. Dobbiamo abbandonare l’idea secondo cui facciamo analisi quantitative per trovare la decisione “giusta”, che saremo poi costretti a prendere se vogliamo definirci esseri razionali. Ma noi non siamo dei “clockwork mandarins[1]. Il punto di tale analisi è, infatti, l’esposizione ordinata delle stime in nostro possesso, e il ragionamento che va da una serie di stime e misurazioni ad una decisione.

In terzo luogo, dobbiamo dimostrare che la riduzione del rischio è la nostra principale preoccupazione e che non siamo guidati da considerazioni limitate in termini di costi-benefici. Naturalmente il costo è un fattore da tenere in considerazione, perché siamo obbligati ad essere efficienti con le nostre risorse e quelle della società in generale. Se attualmente non dovessimo riuscire a controllare alcuni rischi, dovremmo farlo solo perché ci sono obiettivi migliori; stiamo realmente bilanciando il rischio con il rischio, con l’obiettivo di ottenere il miglior risultato.

Infine, dovremmo capire i limiti della quantificazione; ci sono alcuni valori a noi cari che non sono classificabili tradizionalmente come benefici, ma non per questo diventano meno rilevanti. Walter Lippman una volta ha fatto notare che in una democrazia “il popolo”, come in “Noi il popolo”, si riferisce non solo alla maggioranza lavoratrice che prende le decisioni attuali, e non solo a tutti i popoli viventi, ma anche a coloro che sono venuti prima di noi, che ci hanno fornito le nostre tradizioni e il nostro patrimonio materiale come nazione, nonché a coloro che verranno dopo di noi, ed erediteranno tutto ciò. Molte delle più importanti decisioni che prendiamo in materia ambientale concernono questo più ampio senso di responsabilità pubblica.

Suppongo che l’obiettivo ultimo di questo sforzo sia quello di far capire al popolo americano la differenza tra un mondo sicuro e un mondo a rischio zero con riferimento agli inquinanti ambientali. Dobbiamo definire il significato di sicurezza alla luce della nostra crescente capacità di rilevare piccole quantità di sostanze nell’ambiente e di associare la carcinogenesi a un’enorme varietà di sostanze di uso comune. Secondo Bruce Ames, il biochimico ed esperto di cancro, la dieta umana è piena di sostanze tossiche di ogni tipo, tra cui molti agenti cancerogeni, mutageni e teratogeni. Tra questi ci sono alimenti come pepe nero, funghi, sedano, radice di pastinaca, burro di arachidi, fichi, prezzemolo, patate, rabarbaro, caffè, tè, grassi, carne rosolata e germogli di soia. L’elenco continua: il punto è che sarebbe difficile trovare una dieta che sostenga la vita e al contempo non comporti rischi per il consumatore.

Allora, cos’è sicuro? Siamo tutti al sicuro in questo momento? La maggior parte di noi sarebbe d’accordo nel dire che lo siamo, anche se siamo soggetti a rischi calcolabili di vari tipi di catastrofi che possono accadere anche mentre assistiamo a una conferenza all’interno di un edificio. Potremmo riuscire a ridurne alcuni con un ulteriore sforzo, ma in generale riteniamo di avere (per coniare una frase) un “adeguato margine di sicurezza” quando, per esempio, ci troviamo all’interno di un edificio che è protetto dai fulmini, ma esposto ai meteoriti.

Allora, cos’è sicuro? Siamo tutti al sicuro in questo momento? La maggior parte di noi sarebbe d’accordo nel dire che lo siamo, anche se siamo soggetti a rischi calcolabili di vari tipi di catastrofi che possono accadere anche mentre assistiamo a una conferenza all’interno di un edificio

Penso che possiamo convincere la gente a iniziare a dare quei giudizi di sicurezza sui misteriosi prodotti della tecnologia moderna. Non credo che riusciremo nemmeno a trovare un accordo sui valori; un dibattito continuo sui valori è l’essenza di una politica democratica. Ma penso che dobbiamo fare di più per mostrare come valori diversi conducano ragionevolmente a risultati politici diversi. E possiamo farlo solo se siamo in grado di costruire una “riserva di fiducia”, se la gente crede che abbiamo presentato correttamente i fatti, che abbiamo sottoposto al loro giudizio i nostri valori e che abbiamo rispettato i loro, indipendentemente dal fatto che tali valori possano o meno essere presi in considerazione per le nostre decisioni. Come credo e spero, abbiamo iniziato a costruire questo tipo di fiducia nell’EPA.

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[1] Presidente della U.S. Environmental Protection Agency, Washington, D.C. 20460.

[2] Discorso tenuto presso l’Università di Princeton, il 18 febbraio 1984.

[3] Si tratta di un’espressione intraducibile. Potrebbe richiamare il termine dialettale “queer as a clockwork orange” – entrato nella cultura popolare grazie al film diretto da Stanley Kubrick “A Clockwork Orange”, tratto dall’omonimo romanzo di Anthony Burgess –, utilizzato dagli abitanti di East London per indicare una persona all’apparenza normale e naturale, umana, ma intimamente strana, meccanica, simile ad un automa [N.d.t.].

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