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Fascicolo 3/2020

Pubblichiamo qui, per gentile concessione editoriale, la nostra integrale traduzione dell’articolo di Nora Volkow, direttrice del NIDA – National Institute on Drug Abuse, Addiction Is a Disease of Free Will, del 12 giugno 2015.

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Quando avevo cinque o sei anni, mio ​​nonno – il padre di mia madre – morì per quella che mi fu a lungo descritta come la complicazione di una malattia cardiaca. Tempo dopo, quando ormai avevo portato a termine la mia formazione medica in psichiatria e avevo lavorato a lungo con il neuroimaging per studiare il cervello dipendente, seppi quale fu la vera ragione della sua morte. Mia madre un giorno mi chiamò, era poco prima che morisse, e mi disse: «Nora, devo dirti una cosa di cui non ti ho mai parlato». Mi rivelò che mio nonno era un alcolizzato e che si era suicidato in preda all’angoscia per il fatto di non essere in grado di controllare il suo forte impulso di bere.

È stato uno shock. Mia madre mi aveva tenuto nascosto il vero motivo della morte di mio nonno, anche se sapeva che avevo dedicato la mia intera vita professionale al tentativo di capire quale effetto provochino le droghe sul cervello. Mi aveva sentito parlare della dipendenza come di una malattia cerebrale. Quindi mi sono chiesta dove avessi sbagliato nella comunicazione con lei – perché non ero stata capace di farle capire che andava bene parlare di dipendenza, che non c’era alcuna ragione di vergognarsi a farlo.

Mi sono chiesta dove avessi sbagliato nella comunicazione con lei – perché non ero stata capace di farle capire che andava bene parlare di dipendenza, che non c’era alcuna ragione di vergognarsi a farlo

Ci ho pensato diverse volte e mi rendo conto che descrivere la dipendenza come una “malattia cronica del cervello” è qualcosa di molto teorico e astratto. Se foste i genitori di un bambino gravemente malato, se andaste in ospedale e il medico vi dicesse: «vostro figlio è in coma perché ha il diabete», e poi proseguisse spiegando che il diabete è una malattia cronica del pancreas, questo vi aiuterebbe a comprendere perché il vostro bambino sta così male? No, non vi aiuterebbe. Quello che vi consentirebbe di capire è l’ulteriore spiegazione che le cellule del pancreas non riescono più a produrre insulina, e noi abbiamo bisogno dell’insulina per poter utilizzare il glucosio come fonte di energia e quindi, senza di essa, le cellule del nostro corpo non hanno energia. Questo spiega perché vostro figlio è malato.

Per comprendere i devastanti cambiamenti nel comportamento di un individuo dipendente, tali che neanche la più seria minaccia di punizione basta a impedirgli di assumere droghe – dal momento che sono disposti a rinunciare a tutto ciò a cui tengono pur di assumere la sostanza –, non è sufficiente dire che la dipendenza è una malattia cerebrale cronica. Ciò che intendiamo, quando affermiamo questo, è qualcosa di molto specifico e profondo, ossia che, a causa dell’uso della sostanza, il cervello di una persona non è più in grado di produrre una cosa che è necessaria per il nostro funzionamento e che le persone sane danno per scontata: il libero arbitrio.    

Per comprendere i devastanti cambiamenti nel comportamento di un individuo dipendente, tali che neanche la più seria minaccia di punizione basta a impedirgli di assumere droghe […], non è sufficiente dire che la dipendenza è una malattia cerebrale cronica […]. A causa dell’uso della sostanza, il cervello di una persona non è più in grado di produrre una cosa che è necessaria per il nostro funzionamento e che le persone sane danno per scontata: il libero arbitrio

Tutte le sostanze da abuso, siano esse legali o illegali, causano importanti picchi di dopamina in zone cerebrali che sono fondamentali per la regolazione del nostro comportamento – i circuiti della ricompensa (come l’area del nucleo accumbens), le regioni prefrontali che controllano le nostre funzioni superiori come il giudizio, il processo decisionale e la capacità di esercitare autocontrollo sulle nostre azioni –. Questi circuiti cerebrali si adattano a questi picchi diventando molto meno sensibili alla dopamina, secondo un processo chiamato downregulation dei recettori. Il risultato è che gli ordinari piaceri della vita – tutti quei gradevoli comportamenti, sociali e fisici, necessari per la nostra sopravvivenza (che sono costantemente ricompensati da piccole esplosioni di dopamina) – non sono più sufficienti a motivare l’individuo, il quale ha bisogno di quell’enorme picco di dopamina generato dal farmaco per sentirsi temporaneamente bene… ed è costretto a ripetere questo schema continuamente, in un circolo vizioso senza fine.

Gli ordinari piaceri della vita […] non sono più sufficienti a motivare l’individuo, il quale ha bisogno di quell’enorme picco di dopamina generato dal farmaco per sentirsi temporaneamente bene… ed è costretto a ripetere questo schema continuamente

Torno alla conversazione con mia madre. Comprendo che la sua vergogna era dovuta non solo alla circostanza che suo padre fosse un alcolizzato, ma anche al fatto che si era suicidato a causa della disperazione e del senso di impotenza per la sua incapacità di controllare l’impulso di bere. Aveva tentato di smettere, ma poi era ricaduto, e questo ciclo si era ripetuto ancora e ancora e ancora… fino ad arrivare a quell’ultimo momento di odio verso se stesso.

C’è molto che possiamo fare molto per ridurre la vergogna e lo stigma connessi alla tossicodipendenza, una volta che i medici professionisti, e noi tutti come società, avremo compreso che la dipendenza non è solo “una malattia del cervello”, ma una malattia in cui i circuiti che ci permettono di esercitare il libero arbitrio non funzionano più come dovrebbero. Le droghe interrompono questi circuiti. La persona che è dipendente non sceglie di essere dipendente; non è più una scelta assumere la sostanza. Le persone dipendenti nel mio laboratorio dicono spesso che non è nemmeno piacevole. «Non riesco a controllarmi». O dicono, «Devo assumere la droga, perché il disagio di non farlo è troppo difficile da sopportare».

Le droghe interrompono questi circuiti. La persona che è dipendente non sceglie di essere dipendente; non è più una scelta assumere la sostanza. Le persone dipendenti nel mio laboratorio dicono spesso che non è nemmeno piacevole

Se sapremo accogliere la nozione di dipendenza come malattia cronica in cui la sostanza danneggia i circuiti cerebrali fondamentali che ci consentono di fare ciò che diamo per scontato – assumere una decisione e perseguirla – saremo in grado di ridurre lo stigma, non solo in famiglia e nei luoghi di lavoro, ma anche nel sistema sanitario, nei servizi e in ambito assicurativo.

Una volta che le persone abbiano capito il meccanismo patologico che sta alla base della dipendenza, gli individui malati non saranno costretti a superare ostacoli per accedere a trattamenti evidence-based (come quelli a base di la buprenorfina o metadone per la dipendenza da oppioidi), ma semplicemente riceveranno, senza giudizio alcuno, l’aiuto di cui hanno bisogno, come accade nel caso di un bambino con il diabete o di una persona con una malattia cardiaca o un tumore. Non dovranno provare vergogna né dovranno sentirsi inferiori, perché sarà chiaro che soffrono a causa di una malattia che dovrebbe essere trattata come qualsiasi altra.

Una volta che le persone abbiano capito il meccanismo patologico che sta alla base della dipendenza, gli individui malati non saranno costretti a superare ostacoli per accedere a trattamenti evidence-based […], ma semplicemente riceveranno, senza giudizio alcuno, l’aiuto di cui hanno bisogno

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