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26.06.2019
Ciro Grandi

Le principali categorie di reati culturalmente motivati nella giurisprudenza italiana

Fascicolo 6/2019

In linea con i pronostici da tempo espressi in dottrina, l’accresciuta presenza numerica sul territorio nazionale di individui provenienti da contesti culturali allogeni ha prodotto un considerevole aumento statistico dei procedimenti penali relativi ai “reati culturalmente motivati”, espressione di uso oramai comune anche nella letteratura penalistica nazionale, con la quale si designano i comportamenti realizzati da appartenenti a minoranze etniche, vietati e puniti nell’ordinamento giuridico della società di accoglienza e invece tollerati, approvati, incoraggiati o addirittura imposti nel contesto culturale di appartenenza dell’autore.

Nell’ambito di tali procedimenti, si è via via consolidata l’abitudine difensiva ad invocare l’antinomia tra norma penale e regola di matrice culturale quale strumento idoneo di volta in volta ad escludere l’elemento soggettivo del fatto tipico, ad integrare una causa di giustificazione o, più limitatamente, una circostanza attenuante, a ritenere non applicabile un’aggravante o a mitigare la pena all’interno della cornice infraedittale, specie in relazione al quantum di colpevolezza.

La presentazione in allegato – che riproduce i contenuti della lezione dal titolo “Le principali categorie di reati culturalmente motivati nella giurisprudenza italiana”, svolta presso la Scuola Superiore di Magistratura nell’ambito del corso denominato “Diritto penale e multiculturalismo” (13-15 marzo 2019) – si propone di illustrare l’accoglienza riservata dalla giurisprudenza a tali argomentazioni difensive, nel panorama domestico.

 

Per scaricare le slide presentate dall’autore in occasione del convegno “Diritto penale e multiculturalismo”, clicca su “apri allegato”.

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Nella vasta gamma di illeciti suscettibili di assumere connotati “culturalmente orientati”, la presente analisi è limitata alla casistica relativa ad alcuni reati contro la famiglia (con particolare riferimento ai maltrattamenti in famiglia, senz’altro la fattispecie statisticamente più frequente nella giurisprudenza in esame) e contro la persona (specialmente – ma non solo – omicidi e reati contro la libertà sessuale).

In relazione a questi reati, l’atteggiamento della giurisprudenza di legittimità si è contraddistinto in una prima fase per la metodica negazione di conseguenze in bonam partem alla matrice culturale della condotta. Più in particolare, nonostante il solco già tracciato in tal senso dagli indirizzi decisionali maturati nel panorama comparatistico e il diffondersi di ricostruzioni dottrinali vieppiù favorevoli alla flessibilizzazione delle categorie dogmatiche in ragione delle peculiarità culturali del soggetto attivo, gli orientamenti della Cassazione si sono dapprima contraddistinti per un tendenziale atteggiamento di indifferenza, con punte di aperta diffidenza, nei confronti della (invocata) motivazione culturale. Per di più, nel respingere le allegazioni difensive volte a far leva su tale motivazione per conseguire effetti a vario titolo favorevoli, si sono sovente utilizzate cadenze argomentative non esattamente “diplomatiche”.

A titolo esemplificativo, nella sentenza “capostipite” del 1999, la cui massima è stata sovente replicata nelle decisioni successive, le suddette allegazioni sono state ritenute «in assoluto contrasto con le norme che stanno a base dell’ordinamento giuridico italiano» e in particolare con i principi costituzionali (artt. 2, 3, 29 e 30 Cost.) che sanciscono la pari dignità sociale dei coniugi, l’eguaglianza senza distinzione di sesso, i diritti della famiglia e i doveri verso i figli, i quali «costituiscono uno sbarramento invalicabile contro l’introduzione di diritto e di fatto nella società civile di consuetudini, prassi, costumi che suonano come barbari a fronte dei risultati ottenuti nel corso dei secoli per realizzare l’affermazione dei diritti inviolabili della persona» (enfasi aggiunta)[1]. In un’altra ipotesi citata, i principi sanciti negli artt. 2, 29 e 31 Cost. sono stati nuovamente richiamati quali baluardi dinanzi ai quali una «cultura arretrata e poco sensibile alla valorizzazione e alla salvaguardia dell’infanzia deve cedere il passo» (enfasi aggiunta)[2].

Al di là del discutibile tenore lessicale di taluni passaggi motivazionali, va sottolineato come la selezione degli argomenti utili a respingere le istanze difensive si sia rivelata nella sostanza non sempre perspicua.

In sintesi, se il richiamo all’intangibilità di alcuni principi e beni dotati di fondamento costituzionale può a ragion veduta escludere la praticabilità del meccanismo scriminante – imperniato, ad esempio, sull’esercizio del diritto (art. 51 c.p.) a professare liberamente la propria religione (art. 19 Cost.) o a perpetuare le proprie tradizioni culturali[3] – tale richiamo non appare altrettanto calzante laddove si tratti non di stabilire ciò che è (tipico e) antigiuridico, quanto piuttosto di soppesare l’incidenza della motivazione culturale sulla valutazione del quantum (e, in casi estremi, dell’an) di colpevolezza individuale.

Così rettificato il punto prospettico, il summenzionato richiamo all’inviolabilità dei principi costituzionali non coglie più nel segno, giacché riconoscere al condizionamento culturale una qualche incidenza sul procedimento motivazionale non comporta certo l’attribuzione di una “patente di liceità” a comportamenti o consuetudini lesive dei diritti fondamentali: più limitatamente, ferma restando la tipicità e l’antigiuridicità del fatto, tale riconoscimento tenderebbe solo a personalizzare il giudizio di colpevolezza, che non dovrebbe trascurare l’intensa capacità orientativa esercitabile dalla cultura di provenienza sul comportamento dell’agente. Nondimeno, la Cassazione ha ribadito che «la diversa cultura d’origine può essere presa in positiva considerazione solo nei limiti in cui la stessa non confligga in modo frontale con i valori espressi dalla nostra Carta Costituzionale» (enfasi aggiunta)[4]: un’asserzione dal sapore tranchant, tanto esplicativa dell’atteggiamento iniziale della giurisprudenza nei riguardi dei reati culturalmente orientati, quanto discutibile laddove non se ne limiti l’ambito di riferimento, distinguendo a seconda che si abbia di mira la valutazione della dimensione oggettiva del fatto tipico o dell’antigiuridicità, oppure il giudizio sul quantum di colpevolezza.

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A partire dagli ultimi anni dello scorso decennio, al fianco di pronunce in sintonia con l’impostazione sopra illustrata, si sono andate diffondendo in giurisprudenza decisioni caratterizzate da una, seppure parziale, apertura nei riguardi della valorizzazione della matrice culturale della condotta illecita.

Con alcune significative eccezioni[5], quasi tutte le pronunce riconducibili a questo orientamento maggiormente flessibile hanno limitato le ricadute in bonam partem della motivazione culturale alla sola entità della pena, vuoi in relazione all’applicabilità delle circostanze, vuoi limitatamente alla commisurazione infraedittale.

In particolare, si è segnalato quell’orientamento favorevole ad operare una valutazione “culturalmente sensibile” della natura abietta e/o futile dei motivi nel quadro dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 1 c.p. Ad esempio, va ricordata la decisione in cui, operando un opportuno distinguo tra la (ovvia) non condivisibilità dei motivi omicidiari e la loro verosimile incidenza sul procedimento motivazionale del reo, la Cassazione ha ritenuto che «per quanto i motivi che hanno mosso l’imputato non siano assolutamente condivisibili nella moderna società occidentale, gli stessi non possono essere definiti futili, non potendosi definire né lieve né banale la spinta che ha mosso l’imputato ad agire»[6].

Va peraltro precisato che a tale orientamento se ne contrappone un altro volto invece ad escludere, sulla falsariga delle argomentazioni tradizionali, che il giudizio sulla futilità del motivo possa essere calibrato sulle specifiche convinzioni del reo, quando esse siano espressive di un orientamento culturale «inaccettabile», in quanto capace di produrre una compressione di «principi e beni fondamentali»[7].

Al di là degli esiti dei singoli casi e delle oscillazioni ancora riscontrabili in relazione a ipotesi analoghe, in linea generale deve senz’altro riconoscersi che dalle motivazioni delle sentenze più recenti, di merito e di legittimità, traspare un’accresciuta dimestichezza con le ricostruzioni dottrinali in materia di reati culturalmente orientati, nonché con le esperienze sviluppatesi nel panorama comparatistico[8]. Un apprezzabile esempio di dialogo costruttivo tra dottrina e giurisprudenza, nel quadro di una materia caratterizzata da notevoli implicazioni sistematiche, anche sul piano assiologico.

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[1] Cass. pen., sez. VI, 24 novembre 1999, n. 3398, B. (slide 6 ss.); massima ripresa, ex plurimis, da Cass. pen., sez. VI, 8 gennaio 2003, n. 55, K.

[2] Cass. pen., sez. VI, 30 gennaio 2007, n. 3419, B. B. (slide 28).

[3] In questo senso v. Cass. pen., sez. III, 25 gennaio 2007, n. 2841, D. (slide 8 ss.), ove la difesa aveva (pretestuosamente e infruttuosamente) invocato il “diritto” delle popolazioni zingare ad utilizzare i minori nell’accattonaggio per ottenere l’effetto scriminante ex art. 51 c.p. rispetto a condotte integranti la fattispecie di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), se non addirittura quella di riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.).

[4] Cass. pen., sez. I, 1 agosto 2008, n. 32346, M. (slide 33; procedimento per omicidio commesso per vendicare un affronto subito, nell’ambito del quale la sopravvalutazione dell’onore nel contesto culturale di provenienza del reo era stata posta alla base della richiesta, poi respinta, di prevalenza delle concesse attenuanti generiche rispetto alle aggravanti contestate).

[5] In particolare, Trib. Rovigo, 9 febbraio 2010, cit., che ha escluso l’elemento soggettivo del reato di abbandono di minori e incapaci (art. 591 c.p.); Cass. pen., sez. 6, 24 novembre 2011, n. 43636 (slide 13 ss.), che ha ritenuto scusabile l’ignorantia legis “culturalmente fondata” in relazione al reato di esercizio abusivo della professione medica (art. 348 c.p., con particolare riferimento alla mancata consapevolezza circa la natura di “atto medico” dell’intervento di circoncisione maschile, che si sarebbe risolta, nel caso di specie, in errore sul precetto).

[6] Così Cass. pen. sez. I, 18 dicembre 2013, n. 51059; analogamente Cass. pen., sez. I, 21 febbraio 2012, n. 6796.

[7] Cass. pen., sez. I, 18 marzo 2016, n. 11591 (v. slide 34 ss.).

[8] Fin da Cass. pen., sez. VI, 16 dicembre 2008, n. 46300, F., (slide 25 ss., procedimento per maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, violazione degli obblighi di assistenza familiare e sequestro di persona perpetrati da un cittadino marocchino nei confronti della moglie) nella cui motivazione, pur tesa a respingere con argomentazioni “classiche” le istanze della difesa, si dà ampio risalto al dibattito dottrinale (penalistico e non) in materia di reati culturali; tanto è vero che, seppure in un obiter dictum, si prefigura la possibile rilevanza del “fattore culturale” in sede di commisurazione della pena (slide 49). Più di recente, si veda la dotta motivazione di Cass. pen., sez. III, 2 luglio 2018, n. 29613, Q.N. e Q.E., in relazione ad uno dei rari casi in cui la matrice culturale della condotta è suscettibile di riverberarsi anche sulla tipicità del fatto (ipotesi di toccamenti dei genitali del figlio in tenera età da parte del padre, comportamento privo – nella ricostruzione difensiva accolta in secondo grado – della connotazione “sessuale” necessaria a sussumere il fatto nei contorni tipici dell’art. 609bis c.p.). Nella giurisprudenza di merito v., soprattutto, Trib. Rovigo, sez. Adria, 9 febbraio 2010, est. Miazzi, B. (slide 21 ss.). V. anche Trib. Milano, 19 settembre 2014 (slide 50); già, in precedenza, Trib. Genova, 23 ottobre 2003, R. (slide 29 ss., con approfondita ricostruzione dei confini entro i quali la motivazione culturale della condotta può essere valorizzata, pur nel quadro di una decisione che ha negato l’applicabilità all’imputato delle circostanze attenuanti c.d. “generiche” ex art. 62bis c.p.).

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