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Issue 9/2020

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Read here the introduction to the stories of Paolo Oddi.

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Il caso: l’espulsione giudiziaria di un cittadino egiziano copto, detenuto per un reato ostativo, pone il tema del divieto (assoluto) di inespellibilità dello straniero per rischio di persecuzione nel Paese di origine da far valere davanti al Tribunale di Sorveglianza prima e davanti alla Questura poi.

La questione giuridica: il divieto di espulsione verso uno Stato in cui lo straniero possa essere perseguitato per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, è sancito da molteplici convenzioni internazionali, dal diritto europeo e ribadito dall’art. 19, c. 1, del testo unico immigrazione[1].

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A Milano, come in altre parti d’Italia, s’incontrano molte persone attive nel volontariato. La frontiera più delicata ed estrema in cui operano è quella del carcere, specie se con riferimento ai detenuti stranieri.

La condizione giuridica di questa categoria di reclusi è assai precaria perché governata da una grande incertezza circa il loro destino al termine della pena o, in alcuni casi, anche durante l’esecuzione della stessa[2]. L’incognita che li riguarda si chiama espulsione.

L’espulsione è spesso più temuta del carcere, perché essa rappresenta una doppia sconfitta, un doppio fallimento del progetto migratorio. Alla condanna si aggiunge, infatti, l’allontanamento dal nostro paese, per raggiungere il quale i migranti, spesso dopo essersi indebitati, hanno superato mille difficoltà e corso innumerevoli rischi. A ciò si aggiunga l’aspettativa di benessere da parte dei famigliari rimasti in patria.

L’espulsione è spesso più temuta del carcere, perché essa rappresenta una doppia sconfitta, un doppio fallimento del progetto migratorio. Alla condanna si aggiunge, infatti, l’allontanamento dal nostro paese, per raggiungere il quale i migranti, spesso dopo essersi indebitati, hanno superato mille difficoltà e corso innumerevoli rischi

Maria Luisa fa la volontaria in una grande organizzazione cattolica che opera nelle carceri lombarde. Mi chiama per segnalarmi la situazione di un nucleo familiare egiziano, composto da madre, due figli minori e un padre detenuto a Cremona. Il sig. Hatim è stato condannato per una rapina nei confronti di un connazionale. Si è trattato di una vicenda dai confini incerti e per la quale si è sempre professato innocente, tuttavia la sentenza di condanna è diventata definitiva.

Hatim, prima di essere arrestato, lavorava come pizzaiolo in zona viale Padova, a Milano, ed era titolare di un permesso per soggiornanti di lungo periodo. È talmente ben integrato che ha comprato casa con un mutuo.

Naturalmente la sentenza di condanna ha dato luogo alla revoca di detto titolo permanente, nonché al rifiuto di rilascio di un normale permesso di soggiorno per lavoro[3]. Dopo svariati anni trascorsi da solo in Italia Hatim era riuscito finalmente a ricongiungere la moglie e i due figli, un maschio e una femmina[4]. La moglie è casalinga[5] mentre i ragazzi vanno entrambi a scuola.

Rami ha quindici anni e parla bene italiano.

È lui, insieme a Maria Luisa, a raccontarmi tutta la storia del padre. Arrivano trafelati con un plico di documenti per sottopormi il problema.

Il sig. Hatim ha ricevuto in carcere un decreto di espulsione come misura alternativa alla detenzione[6].

«Mio padre non può essere espulso» mi dice Rami guardandomi fisso negli occhi. «Noi siamo copti e in Egitto ci ammazzano. Il governo non ci protegge».

«Mio padre non può essere espulso» mi dice Rami guardandomi fisso negli occhi. «Noi siamo copti e in Egitto ci ammazzano. Il governo non ci protegge»

Nei giorni seguenti leggo i più svariati rapporti delle organizzazioni non governative per approfondire la questione. Ma anche la cronaca quotidiana racconta di frequenti attentati in Egitto alla popolazione che professa la religione cristiana copta.

La dura condizione dei copti egiziani, discriminati e perseguitati, s’intreccia con le altre tragiche notizie di arresti arbitrari, torture, e sparizioni che giungono continuamente da quel paese[7].

Ci sono dieci giorni dalla notifica al detenuto per fare opposizione contro il decreto di espulsione disposto dal Magistrato di sorveglianza di Mantova[8].

Anche questo tipo di espulsione, tuttavia, non può però essere disposta in presenza di uno dei divieti sanciti dall’articolo 19 del testo unico immigrazione. Secondo il comma 1 dell’articolo 19 «in nessun caso può disporsi l’espulsione verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali»[9]. L’agente persecutore non è necessariamente sempre lo Stato egiziano, ma quest’ultimo non protegge comunque a sufficienza questa minoranza oggetto di continui attacchi da parte di fondamentalisti[10].

Hatim non può, dunque, essere espulso, essenzialmente perché a rischio di persecuzione per motivi religiosi in quanto appartenente alla minoranza copta. Inoltre va considerato anche il profilo attinente il diritto all’unità familiare alla luce della presenza di coniuge e figli minori in Italia[11].

Secondo il comma 1 dell’articolo 19 «in nessun caso può disporsi l’espulsione verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali» […]. Hatim non può, dunque, essere espulso, essenzialmente perché a rischio di persecuzione per motivi religiosi

Maria Luisa mi fornisce una dettagliata relazione, da allegare all’atto di opposizione, dove riscostruisce come volontaria la vicenda del nucleo che Hatim ha in carico e nella quale viene specificato che tutti loro sono assidui frequentatori di una chiesa copta a Milano.

Dopo avere ricevuto la nomina dal carcere incontro Hatim nell’aula del Tribunale di Sorveglianza di Brescia dove si tiene l’udienza che deciderà sull’opposizione all’espulsione.

Hatim arriva scortato dalla polizia penitenziaria e ha gli occhi smarriti.

È un uomo di mezza età provato dalle fatiche della vita e dalla detenzione. Porta al collo un crocefisso di plastica e sui polsi ha tatuata la croce simbolo della sua fede[12].

Il giudice relatore espone puntualmente i motivi dell’opposizione ma il Sostituto Procuratore della Repubblica insinua che l’opposizione di Hatim possa essere strumentale, arrivando incredibilmente ad affermare che l’appartenenza religiosa del condannato non possa affermarsi con assoluta certezza.

M’infervoro e insisto. Nessun dubbio sul fatto che appartenga alla confessione copta.

Cosa più dei tatuaggi lo dimostrerebbe?

Il giudice relatore espone puntualmente i motivi dell’opposizione ma il Sostituto Procuratore della Repubblica insinua che l’opposizione di Hatim possa essere strumentale, arrivando incredibilmente ad affermare che l’appartenenza religiosa del condannato non possa affermarsi con assoluta certezza

Nel frattempo, la moglie, che aveva un permesso per motivi familiari, fatica e rinnovarlo. Tutto il nucleo è precario. Rami, studente modello, deve iniziare a lavorare. Maria Luisa, con pazienza e caparbietà, convince la signora a frequentare un corso d’italiano per stranieri perché si emancipi e provi a trovare un impiego anche lei.

Finalmente arriva la decisione del Tribunale di Sorveglianza, che si era riservato. L’opposizione è accolta[13]!

Per i giudici bresciani va applicato l’invocato articolo 19, essendo stati provati sia l’appartenenza del cittadino straniero alla fede copta sia il rischio di persecuzione in caso di rimpatrio.

La gioia dei parenti per il rientro a casa di Hatim al termine della pena è accompagnata dalla preoccupazione per la depressione di cui egli soffre da tempo.

Constato, ancora una volta, come l’incertezza del destino a fine pena dovuta all’eventualità di un’espulsione sia fonte di forti angosce per lo straniero.

Finalmente arriva la decisione del Tribunale di Sorveglianza, che si era riservato. L’opposizione è accolta! […] Constato, ancora una volta, come l’incertezza del destino a fine pena dovuta all’eventualità di un’espulsione sia fonte di forti angosce per lo straniero

Ho bisogno di Hatim per affrontare l’ultimo estenuante pezzo di strada.

Perché la Questura non ha per niente chiaro che la decisione del Tribunale di sorveglianza è sufficiente per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari (così era prima del decreto sicurezza 113/2018)[14].

Ho bisogno di Hatim per affrontare l’ultimo estenuante pezzo di strada. Perché la Questura non ha per niente chiaro che la decisione del Tribunale di sorveglianza è sufficiente per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari

Così, dopo una serie di scambi di messaggi via PEC, che speravo chiarificatori, prendo appuntamento con il responsabile dell’Ufficio Immigrazione, dove arrivo con il codice per mostrare direttamente la norma del regolamento.

Ci vogliono ancora diversi mesi per sbloccare il nodo burocratico, ma quando Maria Luisa mi telefona felice, annunciandomi il rilascio del permesso per motivi umanitari, anch’io gioisco per avere contribuito alla messa in sicurezza di una famiglia migrante che non ha mai avuto pace.

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[1] Anche se non ha fatto domanda di protezione internazionale (cfr. in particolare Convezione di Ginevra 1951 e Protocollo del 1967; direttiva 2004/83/CE, recante norme minime sull’attribuzione ai cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta – attuata con d.lgs. 251/2007 –; direttiva 2011/95/UE recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta – attuata con d.lgs. 18/2014 –; direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato – attuata con d.lgs. 25/2008 –), lo straniero ha diritto a non essere respinto o espulso qualora rischi persecuzioni, tortura, pene o trattamenti disumani o degradanti nel Paese di provenienza. Il principio di non-refoulement è regola fondamentale del diritto internazionale, ha natura consuetudinaria e rango di jus cogens. Esso è sancito da importanti fonti europee, tra le quali la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e per la salvaguardia delle libertà fondamentali (art. 3) e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 19). A livello nazionale è previsto dall’art. 19 del testo unico immigrazione (d.lgs. 286/98).

[2] Per la legge 189/2002 (c.d. legge Bossi-Fini) – che ha modificato in senso repressivo il testo unico sull’immigrazione – la condanna per uno dei reati c.d. ostativi all’ingresso e al soggiorno (art. 4, c. 3, t.u.i.) rende molto difficile per lo straniero in esecuzione penale la prosecuzione della sua vita in Italia, a meno che si possano promuovere giudizi di bilanciamento (cfr. il caso precedente: P. Oddi, Il sig. Wu (caso n. 2), in questa rivista, 22 luglio 2020) od opporre l’esistenza di un divieto di espulsione, come nel caso di Hatim. Esistono due tipologie di espulsioni: amministrative (art. 13 t.u.i.) o giudiziarie (artt. 15 e 16 t.u.i.). Se non colpito da espulsione giudiziaria, il detenuto straniero verrà attinto – a fine pena – da un’espulsione amministrativa. Se titolare di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo (art. 9 t.u.i.) – come Hatim –, o di permesso di soggiorno ordinario (per lavoro, per studio ecc.), allo straniero tale titolo verrà revocato o gli si rifiuterà il rinnovo, per poi procedere con l’espulsione. Nel caso che qui si racconta, ad Hatim era stato revocato il titolo di soggiorno mentre era detenuto e lui non aveva promosso l’impugnazione. Successivamente il magistrato di sorveglianza ha disposto l’espulsione ai sensi dell’art 16, c. 5 e ss. t.u.i. poiché mancavano meno di due anni al fine pena. Si tratta qui di un’espulsione giudiziaria, denominata “alternativa alla detenzione” (v. infra, nota n. 6). In realtà essa non ha alcun tratto in comune con le misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario, ma ha uno scopo dichiaratamente deflattivo del sovraffollamento carcerario. Sulla natura ibrida di questa misura si veda l’ordinanza della Corte Costituzionale n. 226/2004 che la qualifica come “amministrativa”, seppure disposta dal magistrato di sorveglianza. La Corte di Cassazione propende, invece, per la natura penale della stessa, in considerazione specialmente dell’effetto estintivo della pena, una volta eseguita l’espulsione, se nel termine di dieci anni lo straniero non sia rientrato illegalmente nel territorio dello Stato (art. 16, c. 8, t.u.i. – si veda, ad es., Cass. pen sez. I, n. 30474/2004). Nella maggioranza dei casi è comunque più sulla carta che effettiva, poiché se anche disposta permangono i noti problemi che caratterizzano più in generale l’esecuzione di tutte le espulsioni (specie in assenza di accordi bilaterali di riammissione con i Paesi d’origine dello straniero). Va rilevato che nel caso che sto raccontando anche solo l’eventualità di un suo allontanamento ha gettato Hatim nello sconforto, sia per la paura di cosa gli sarebbe potuto succedere in Egitto, sia per il fatto di avere casa e famiglia in Italia.

[3] Cfr. nota n. 2. A tal proposito si veda anche il caso precedente, già citato (P. Oddi, Il sig. Wu, cit.). Nel caso di Hatim la sentenza di condanna ha determinato la revoca del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo ai sensi dell’art. 9, c. 7, lett. c), t.u.i. (sono venute a mancare le condizioni previste per il rilascio, tra le quali la circostanza del non essere ritenuto pericoloso per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato, ivi compreso l’avere riportato sentenze di condanna, anche non definitive, per i reati previsti dall’art. 380 c.p.p., nonché per i delitti ex art. 381 c.p.p. limitatamente a quelli non colposi.). Ad Hatim non è stato concesso un altro tipo di permesso di soggiorno (come prevede il c. 9 del medesimo articolo) a causa del reato ostativo (rientrante nell’art. 380 c.p.p.).

[4] Nella mia esperienza i cittadini egiziani passano molto tempo soli in Italia prima di riuscire a ricongiungere moglie e figli. La materia del ricongiungimento familiare è disciplinata dagli artt. 28, 29, 30, t.u.i., come modificati dal d.lgs. 5/2007 di attuazione della direttiva 2003/86/CE, relativa al diritto al ricongiungimento familiare per tutti i cittadini dei Paesi terzi (questa la dizione tecnica usata dalla normativa europea per indicare i cittadini extracomunitari) regolarmente soggiornanti in uno dei paesi membri.

[5] Spesso le mogli egiziane fanno le casalinghe e si relazionano prevalentemente con connazionali. Questa è una delle ragioni per cui imparano poco la lingua italiana, la cui conoscenza sarà fondamentale per chiedere il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo (come quello di cui, appunto, era titolare Hatim); il cui rilascio è subordinato infatti al superamento di un test di conoscenza della lingua italiana ai sensi dell’art. 9, c. 2 bis, t.u.i.

[6] L’espulsione come misura alternativa alla detenzione è prevista dall’art. 16, c. 5 e ss. del testo unico sull’immigrazione (cfr. nota n. 2). Viene disposta d’ufficio dal magistrato di sorveglianza nei confronti dello straniero non europeo, identificato, a cui manchino meno di due anni a fine pena e che non sia in esecuzione di condanna per uno dei reati previsti dall’art. 12, commi 1, 3, 3 bis e 3 ter del t.u.i. – favoreggiamento dell’immigrazione – e dall’art. 407, c. 2, lettera a), del codice di procedura penale. Dall’elencazione prevista dall’art. 407, c. 2, lett. a) c.p.p. il legislatore del 2014 (v. legge 21 gennaio 2014, n. 10), ulteriormente preoccupato per il sovraffollamento e dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo c.d. Torregiani, ha escluso le condanne per rapina ed estorsione (anche nelle forme tentate), motivo per il quale Hatim è stato raggiunto da un tale genere di espulsione. In altri termini, se sino al 2014 nessuno poteva essere espulso con misura alternativa alla detenzione se condannato per rapina, da allora ciò è possibile. Il legislatore ha scelto così di ampliare i casi in cui può essere sacrificato il principio di rieducazione in nome della riduzione della popolazione carceraria. I detenuti stranieri, anche irregolari, possono comunque accedere alle misure alternative alla detenzione previste dall’ordinamento penitenziario specie dopo che la questione è stata definitivamente chiarita dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite con sentenza 7458/2006.

[7] Sono moltissimi i rapporti delle più svariate istituzioni internazionali e delle organizzazioni non governative sulle condizioni della minoranza cristiano copta in Egitto e, più in generale, sulle gravi violazioni dei diritti umani in corso in quel Paese. Si veda a tal proposito l’ultimo Rapporto annuale di Amnesty International (disponibile a questo link). Si consulti anche il sito ecoi.net, che raccoglie moltissime informazioni sui paesi d’origine dei migranti e che è assai utile per avere uno sguardo aggiornato quando si deve difendere i cittadini stranieri. In particolare si consulti la sezione concernente l’Egitto.

[8] Secondo l’art. 16, c. 6, t.u.i. l’atto di opposizione al decreto di espulsione come misura alternativa (che deve essere notificato allo straniero e al suo difensore) va presentato a pena di inammissibilità entro il termine di dieci giorni davanti al tribunale di sorveglianza. Se lo straniero non è assistito da un difensore di fiducia, il magistrato provvede alla nomina di un difensore d’ufficio. Il tribunale decide nel termine di 20 giorni. Il c. 7 stabilisce che l’esecuzione del decreto di espulsione è sospesa fino alla decorrenza dei termini di impugnazione o della decisione del tribunale di sorveglianza e, comunque, lo stato di detenzione permane fino a quando non siano stati acquisiti i necessari documenti di viaggio. Nella prassi, stante la difficoltà di acquisire detti documenti (perché è necessaria la cooperazione delle autorità consolari dei paesi d’origine dello straniero), sebbene disposta, l’espulsione non viene effettivamente eseguita. Detta tipologia di espulsione giudiziaria si estingue con la fine della pena in esecuzione, essendo una misura alternativa della stessa. In ogni caso una volta scontata la pena subentrano prefetture e questure a decretare ed eseguire un’espulsione amministrativa in ragione dell’ostatività della condanna riportata dallo straniero. La giurisprudenza di Cassazione ha chiarito che anche tale decreto deve essere tradotto nella lingua dello straniero e che esso deve fondarsi su uno dei presupposti previsti tassativamente dalla norma espressamente richiamata, che fa riferimento allo straniero che si trovi in una delle situazioni indicate all’art. 13, c. 2, t.u.i. (si v. Cass., pen., sez. I, sent. n. 20014/2013).

[9] Ciò è espressamente sancito anche dall’art. 16, c. 9, t.u.i., laddove testualmente si afferma che «l’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione non si applica nei casi di cui all’art. 19».

[10] Cfr. l’articolo Nord Sinai, giovane copto ucciso: aveva una croce tatuata sul polso, in AsiaNews, 17 gennaio 2018.

[11] Bilanciamento non contenuto nel provvedimento del magistrato di sorveglianza, che evidentemente non era al corrente di tutti gli elementi riguardanti lo specifico caso. Per questa ragione è sempre fondamentale una conoscenza del caso da parte del difensore che ben può rappresentare al magistrato l’esistenza di motivi ostativi all’espulsione. Il tribunale di sorveglianza, reso edotto di tutta la situazione narrata, riterrà prevalente il rischio di persecuzione per motivi religiosi e quindi superflua la trattazione di questo ulteriore motivo dedotto nell’atto di opposizione.

[12] Cfr. R. Scolari, Quella croce sul polso che tiene i cristiani sempre sotto minaccia, ne La Stampa, 29 aprile 2017.

[13] Per il tribunale «[…] risulta in effetti, dagli atti ed in particolare dalla documentazione allegata all’opposizione l’appartenenza del soggetto, l’appartenenza del soggetto alla confessione religiosa cristiano copta: la circostanza viene riferita dalle associazioni di volontariato che si occupano del nucleo familiare di […] e che pure evidenziano la situazione di pericolo cui il medesimo sarebbe esposto nell’ipotesi di rientro nel paese di provenienza (Egitto). L’opponente ha documentato, altresì, la situazione di persecuzione subita in detto paese dai seguaci della citata confessione religiosa (trattasi, del resto, di fatto ben noto, a più riprese divulgato dai mezzi di informazione)».

[14] Al riconoscimento di un divieto di espulsione ex art. 19, c. 1, t.u.i. seguiva – prima del decreto sicurezza c.d. “Salvini uno”, d.l. 4 ottobre 2018, n. 113 –, ai sensi dell’art. 11, lett. c-ter, del regolamento di attuazione del medesimo t.u.i., il rilascio di un permesso per motivi umanitari. Oggi permane il divieto che, se riconosciuto dà diritto a un permesso di soggiorno per c.d. protezione speciale, ai sensi dell’art. 1, c. 2, lett. a), d.l. 113/2018, convertito con modificazioni in l. 132/2018.

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