Credits to Unsplash.com
01.07.2020
Nicola Mirenzi

«Bisogna rompere il monopolio del carcere»

Intervista a Luciano Violante: prevale una concezione per cui gli impuri vanno esclusi dal mondo. Non è col diritto penale che si risolvono i problemi sociali. Vanno ridotti al minimo i reati puniti con la reclusione

Fascicolo 7-8/2020

Pubblichiamo qui, per gentile concessione editoriale, il presente contributo di Nicola Mirenzi, originariamente pubblicato sulla Rivista Huffpost, 11 maggio 2020.

***

In carcere è stato chiuso una volta sola: «Studiavo ancora all’università e facevo l’assistente penitenziario, una forma di volontariato per i detenuti. Portai le uova per festeggiare il compleanno di un recluso. La frittata era il suo piatto preferito. Quando le guardie passarono per chiudere le celle, rimasi dentro per chiacchierare un altro po’ con i tre detenuti. “Tanto poi ti fanno andare”, mi dissero. Alla fine della sera bussai per uscire. La guardia mi rispose dallo spioncino: “Qui tutti vogliono uscire”. Mi preoccupai e chiesi di parlare con il direttore. Mi rispose ancora: “Qui tutti vogliono parlare con il direttore”. Non ci fu nulla da fare. Passai la notte dormendo seduto sul pavimento. La mattina dopo, quando vennero per la battitura, mi beccai un ceffone. Dovevano essere tre in cella. Eravamo quattro. Credettero avessi fatto il furbo».

Da allora – erano gli anni sessanta – Luciano Violante non è stato mai imprigionato in un ruolo e basta. Ha fatto il giudice, il magistrato istruttore di processi sul terrorismo politico rosso e nero, ha messo in piedi l’inchiesta sul Golpe bianco di Edgardo Sogno, è stato professore di diritto penale e pubblico, parlamentare con il Partito comunista, il Pds, i Ds, presidente della commissione antimafia e poi della Camera dei deputati. «Il processo di liberazione dal carcere ha fatto negli ultimi anni molti passi in avanti. L’idea di abolirlo che sostiene Gherardo Colombo è un’utopia nobile. Però io ho come riferimento un’espressione di Marx: l’utopia realistica. Non credo che oggi ci si possa emancipare dal carcere in maniera assoluta, chiudendolo domani mattina. Però sono convinto che possiamo – anzi, dobbiamo – liberarci dal carcere in maniera relativa, rompendo il monopolio della pena carceraria. Limitando la galera al massimo, e solo ai casi in cui non è possibile fare altrimenti. Già oggi ci sono 53 mila persone che scontano la pena in prigione e 61 mila che la scontano fuori. Bisogna andare ancora più avanti, ancora più a fondo. Riformando l’intera concezione della pena, che è rimasta ferma al Settecento, quando nacquero le istituzioni totali».

Non credo che oggi ci si possa emancipare dal carcere in maniera assoluta, chiudendolo domani mattina. Però sono convinto che possiamo – anzi, dobbiamo – liberarci dal carcere in maniera relativa, rompendo il monopolio della pena carceraria. Limitando la galera al massimo, e solo ai casi in cui non è possibile fare altrimenti

 

In una di queste, Violante è nato: «I miei furono rinchiusi in un campo di concentramento in Etiopia. Mio padre era andato in Africa perché sotto il regime fascista era l’unico luogo in cui poteva vivere liberamente, pur essendo comunista. Quando arrivarono gli inglesi, chiusero tutti gli italiani lì dentro, sia che fossero fascisti, sia che fossero antifascisti. Passai in quel posto i primi tre anni della mia vita. Ma non ricordo niente. I miei non ne parlarono mai. Credo pensassero che chi non aveva vissuto quell’esperienza non poteva capire. Solo una volta mia madre, vedendomi tornare dal supermercato con un sacco di roba, mi disse: “Lo capisco, con tutta la fame che hai patito da piccolo”».

Ha qualcosa in comune con il nostro carcere?

In parte, l’idea che sei un nemico, che devi essere allontanato dalla comunità. Il carcere è il luogo attraverso cui ci liberiamo di chi ha rotto la relazione umana. Lo buttiamo via, senza preoccuparci di cosa gli avviene. Negli ultimi anni ha preso piede, non solo in Italia, una cultura politica che concepisce la società come un mondo da purificare. Dal quale gli impuri, le persone che commettono reati e i sospettati, vanno radiati, con il diritto penale e con il carcere. La purezza però è una fantasma che si sporca facilmente. Questo alimenta il sospetto e, intorno a esso, costruisce un apparato di repressione capillare. Un dispositivo autoritario pericoloso.

Negli ultimi anni ha preso piede, non solo in Italia, una cultura politica che concepisce la società come un mondo da purificare. Dal quale gli impuri, le persone che commettono reati e i sospettati, vanno radiati, con il diritto penale e con il carcere. La purezza però è una fantasma che si sporca facilmente

È su questo che si basa anche il nostro diritto?

Negli anni, è cresciuta una visione pervasiva del reato, secondo la quale ogni trasgressione deve essere punita penalmente. Interi pezzi di società, più alcuni settori delle istituzioni e del mondo politico, pensano che il diritto penale sia un mezzo per risolvere i problemi sociali. Per qualsiasi cosa non vada, si istituisce un reato. Credendo di ripulire la società, in realtà la si soffoca. Dando vita a un imperialismo giuridico. Questa volta, senza colpa dei magistrati.

Le carceri sono piene per questo?

Anche per questo. Oggi la questione centrale è riflettere sul senso della pena. A cosa deve servire nel Ventunesimo secolo? Noi siamo fermi a un’idea antica, secondo la quale chi rompe la fiducia della comunità merita di essere estromesso dalla società, spinto in un luogo ai margini, com’è il carcere.

Interi pezzi di società, più alcuni settori delle istituzioni e del mondo politico, pensano che il diritto penale sia un mezzo per risolvere i problemi sociali. Per qualsiasi cosa non vada, si istituisce un reato. Credendo di ripulire la società, in realtà la si soffoca

 

A cosa dovrebbe servire, invece?

In una concezione moderna, la pena dovrebbe servire a ricostruire la relazione. Già nell’Antico testamento c’è un concetto che è stato sepolto sotto millenni di pratica dell’emarginazione del colpevole. La parola tsedakah viene tradotta con il termine giustizia, ma in realtà significa “ristabilire il rapporto”. Riconciliare chi ha infranto le regole della comunità con la comunità stessa.

Il carcere non dovrebbe servire proprio a questo?

È amaro dirlo, però non è così: il carcere non educa a niente. Instaura solo un rapporto di soggezione tra il detenuto e il potere, sia quello pubblico, sia quello dei criminali che conservano un ruolo dentro. L’unico carcere che fa bene al detenuto, è il carcere che si libera di se stesso. È quello che riesce a offrire la possibilità di lavorare, di riprendere un ruolo nel mondo. Cosa che succede di rado.

È amaro dirlo, però non è così: il carcere non educa a niente […]. L’unico carcere che fa bene al detenuto, è il carcere che si libera di se stesso

Le è capitato di vederlo?

Una volta, nel carcere di Padova, stavo tenendo una lezione. Un detenuto si alzò e tirò fuori il suo modello 740. Mi disse: «Questa è la mia dignità. Lavoro, pago le tasse». Era un uomo con quattro ergastoli. Non aveva alcuna possibilità di uscire. Eppure, aveva ricostruito un rapporto con la comunità.

Allora il potere penale può funzionare?

Meno punisce, più funziona. Il potere penale lacera, non ricostruisce. È uno strumento di rottura sociale, non di ricomposizione. In tutte le sue fasi: dal processo, sino alla condanna. Per questo, deve essere usato con grande senso della misura.

Lei l’ha avuto?

Quando, da giudice, dovevo decidere la galera, mi domandavo: «Ma che significa dare cinque anni di carcere per un determinato reato?». Era un riferimento astratto, senza alcuna adesione alla realtà. Un conto sono cinque anni in un carcere vicino casa, un altro conto è passarli a centinaia di chilometri di distanza. Una cosa è finire in un istituto civile come quello di Opera, una cosa completamente diversa è essere sbattuti in una cella minuscola, insieme ad altre persone, in condizioni igieniche, sanitarie e psicologiche squallide.

Quando, da giudice, dovevo decidere la galera, mi domandavo: «Ma che significa dare cinque anni di carcere per un determinato reato?». Era un riferimento astratto, senza alcuna adesione alla realtà

Quando ha capito che era un problema?

Appena misi piede nel carcere. Ero ancora uno studente di giurisprudenza. Quello che studiavo sui libri era il diritto penale dei giorni di festa, dove si racconta la pena che redime ed edifica un uomo nuovo. Quello che vedevo era il diritto penale dei giorni feriali, dove vivevano un gran quantità di poveretti abbandonati in luoghi fatiscenti, la cui probabilità di ritornare salvi dentro l’umanità era calcolata nell’ordine del miracolo.

Perché allora mantenere in piedi il carcere?

Il carcere di quegli anni era abissalmente diverso da quello di oggi. La generazione di direttori penitenziari che si sono laureati dagli anni settanta in poi ha così tanto assorbito i principi di libertà della Costituzione da far compiere ai penitenziari progressi enormi. Eppure, ci sono ancora carceri in condizioni orrende. Che danneggiano, oltre i detenuti, gli uomini della polizia penitenziaria, i medici, gli operatori sociali.

Quello che studiavo sui libri era il diritto penale dei giorni di festa, dove si racconta la pena che redime ed edifica un uomo nuovo. Quello che vedevo era il diritto penale dei giorni feriali, dove vivevano un gran quantità di poveretti abbandonati in luoghi fatiscenti, la cui probabilità di ritornare salvi dentro l’umanità era calcolata nell’ordine del miracolo

Si può davvero togliere la libertà senza ledere la dignità?

Se anziché insistere sulla pena ci concentrassimo sul ripristino del legame con la società, credo di sì. Il detenuto non è una categoria dello spirito. È un essere umano, ha una storia singolare, unica. C’è chi è stato punito per furto, chi per gravi delitti mafiosi. Non si possono trattare entrambi allo stesso modo. Per il primo è necessario porre la questione del superamento del carcere, attraverso misure alternative. Per il secondo il carcere serve, per impedirgli di fare ancora del male, e per offrire un risarcimento alla società.

Da dove partirebbe la riforma di cui parla?

Da una restrizione radicale del concetto di reato, che riduca al minimo il numero di casi punibili con la detenzione.

Tipo quali?

Direi che il reato dovrebbe essere limitato ai soli in casi in cui si verifica una lesione di un bene che non è più recuperabile. La vita, per esempio.

Il detenuto non è una categoria dello spirito. È un essere umano, ha una storia singolare, unica. C’è chi è stato punito per furto, chi per gravi delitti mafiosi. Non si possono trattare entrambi allo stesso modo

Lei riesce a immaginare una discussione del genere in parlamento?

Questa non è una questione che possono porre solo i politici. È una svolta che deve partire dalla cultura, come tutte le grandi innovazioni dell’uomo. Le intelligenze del nostro tempo dovrebbero mobilitarsi per creare il sistema penale del Ventunesimo secolo. I giuristi ripensando la pena. Gli altri immaginando i modi con i quali è possibile ristabilire la relazione tra la comunità e chi l’ha ferita. Altrimenti, il potere penale continuerà a lacerare la comunità, imponendo la purezza dell’ordine dello stato sul disordine della vita.

Altro

Un incontro di saperi sull’uomo e sulla società
per far emergere l’inatteso e il non detto nel diritto penale

 

ISSN 2612-677X (sito web)
ISSN 2704-6516 (rivista)

 

La Rivista non impone costi di elaborazione né di pubblicazione