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Fascicolo 4/2020

Che cos’è la coscienza?

Ci sono differenze tra il concetto di “inconscio” secondo Freud e secondo le neuroscienze moderne?

Credo che l’aspetto più importante da sottolineare, quando si confrontano le credenze attuali con quelle freudiane in tema di coscienza, è che ai tempi di Freud era opinione diffusa che la coscienza avesse a che fare con la percezione. Come un flusso che proviene dall’esterno. Lo stesso Freud era convinto che la coscienza fosse legata alle percezioni. Oltre a questo, tuttavia, secondo Freud esisteva anche di ciò che egli stesso ha definito “coscienza affettiva”, o coscienza emotiva. Da questo punto di vista, Freud era in anticipo rispetto al suo tempo. Ora sappiamo che la coscienza emotiva, ossia la coscienza che proviene dall’interno del soggetto, è molto più importante della coscienza percettiva. Quest’ultima, infatti, è secondaria rispetto alla coscienza affettiva. La forma primaria di coscienza è la coscienza endogena, generata internamente.

In sintesi, tutti i maestri di Freud erano convinti che la coscienza provenisse dall’esterno; Freud stesso lo pensava, ma pensava altresì, in aggiunta a ciò, che esistesse anche una coscienza affettiva. Oggi crediamo che questa coscienza affettiva sia la più importante e che diventiamo consapevoli di ciò che proviene dall’esterno solo grazie ad essa.

Tutti i maestri di Freud erano convinti che la coscienza provenisse dall’esterno […]. Oggi, invece, crediamo che la coscienza affettiva sia la più importante e che diventiamo consapevoli di ciò che proviene dall’esterno solo grazie alla coscienza affettiva

Si è verificato un vero e proprio spostamento della nostra attenzione. Mentre in passato eravamo perlopiù concentrati sulla coscienza in relazione al mondo esterno, oggi tendiamo a guardare alla coscienza come a qualcosa che nasce da dentro di noi.

 

Che cosa ci dicono queste riflessioni circa le motivazioni che guidano il nostro comportamento? In altre parole, per gli esseri umani quanto contano le motivazioni inconsce e quelle consapevoli?

Anche sotto questo profilo, Freud è stato un pioniere nel riconoscere l’importanza delle motivazioni e della soggettività, di ciò che viene da dentro di noi. Ciò che Freud non aveva compreso, tuttavia, è quanto tutto questo abbia a che fare con la coscienza. Freud pensava alle spinte motivazionali interne come a pulsioni, intesi come meccanismi inconsci, corporei, che influenzano la mente in maniera molto indiretta. La prospettiva da cui osserviamo il fenomeno oggi è che questi meccanismi motivazionali interiori sono proprio ciò che genera la coscienza, a partire da ciò che genera le sensazioni come avere fame, sete o sonno. Questa è la forma fondamentale della coscienza. È ciò che ci spinge a uscire fuori nel mondo. L’unica ragione per la quale siamo interessati al mondo esterno è che è proprio lì che si trova tutto ciò di cui potremmo avere bisogno. Pertanto, sensazioni e motivazioni sono due aspetti di un unico fenomeno. Le sensazioni sono l’origine della coscienza; la motivazione è anch’essa l’origine della coscienza. In sostanza, la coscienza è ciò che ci permette di diventare consapevoli del mondo esterno e di attribuire a esso un qualche valore. Pertanto, in questo senso, la coscienza è qualcosa di qualitativo. Ha carattere valutativo. Il mondo, di per sé, è fatto di cose. Il significato che queste cose hanno per noi è permeato dalle sensazioni e dalla coscienza. In definitiva, motivazione, coscienza e sensazione sono tutte parti della stessa cosa.

La prospettiva da cui osserviamo il fenomeno oggi è che questi meccanismi motivazionali interiori sono proprio ciò che genera la coscienza, a partire da ciò che genera le sensazioni come avere fame, sete o sonno. Questa è la forma fondamentale della coscienza. È ciò che ci spinge a uscire fuori nel mondo

Qual è la funzione della coscienza riflessiva, o consapevolezza, rispetto alla coscienza affettiva?

Penso che oggi la scienza cognitiva presti troppa attenzione alla coscienza riflessiva. Anche Freud ha commesso lo stesso errore. In ambito scientifico, si parte sempre dalla coscienza riflessiva, perché è l’aspetto dominante della coscienza umana. Pertanto, riteniamo che essa sia la prima forma di coscienza, la sua forma base, il punto di partenza.

Cerchiamo così di indagare la nostra capacità di conoscere la nostra mente. In realtà è una forma derivata, estremamente complessa, una coscienza secondaria o terziaria e non primaria. Penso pertanto che sia un errore iniziare da lì. Prendere le mosse dalla coscienza secondaria, vale a dire la coscienza riflessiva, è il modo sbagliato di affrontare il problema di capire come funzioniamo. In prima battuta, infatti, c’è la coscienza affettiva primaria. Questo è il punto di inizio. In secondo luogo, la coscienza si lega agli oggetti e, così, prendono forma le percezioni riguardo l’esterno. Questa è coscienza percettiva. In terzo luogo, cominciamo a riflettere sulle nostre sensazioni riguardo alle cose. È un enorme vantaggio, per noi esseri umani, essere in grado di fare questo, ma è solo il terzo passaggio nell’ambito del percorso che porta alla comprensione di ciò che è la coscienza. La capacità di riflettere sui nostri pensieri riguardanti le percezioni è solo un dettaglio, una capacità aggiuntiva.

 

Che cos’è la neuropsicoanalisi? Qual è il contributo dato dalla neuropsicoanalisi alla psicoanalisi?

Vorrei iniziare dicendo che l’oggetto di studio della neuropsicoanalisi è lo stesso della psicanalisi, ossia la mente. Nel fare questo, però, la neuropsicoanalisi utilizza metodi che sono quelli delle neuroscienze. Ciò offre diverse prospettive su ciò che siamo in grado di conoscere del funzionamento della mente.

I metodi neuroscientifici presentano numerosi vantaggi rispetto a quelli psicoanalitici, ma ciò non significa che possano sostituire del tutto il metodo psicoanalitico. Il metodo psicoanalitico ha il grande potere di essere in grado di esplorare l’esperienza soggettiva, che è molto difficile da studiare oggettivamente. Quindi, per poter studiare la mente anche come oggetto – che è ciò che fa la neuroscienza –, la neuroscienza deve studiare anche il soggetto della mente come oggetto. Ciò significa che, grazie all’aggiunta di metodi oggettivi, che sono quelli neuroscientifici, abbiamo oggi a disposizione molti strumenti nuovi che ci consentono di osservare come funziona la nostra mente. Questo è essenzialmente l’obiettivo che la neuropsicoanalisi sta cercando di raggiungere.

L’oggetto di studio della neuropsicoanalisi è lo stesso della psicanalisi, ossia la mente. Nel fare questo, però, la neuropsicoanalisi utilizza metodi che sono quelli delle neuroscienze. Ciò offre diverse prospettive su ciò che siamo in grado di conoscere del funzionamento della mente […]. Grazie all’aggiunta di metodi oggettivi, che sono quelli neuroscientifici, abbiamo oggi a disposizione molti strumenti nuovi che ci consentono di osservare come funziona la nostra mente

L’indagine attorno a che cosa sia la coscienza rappresenta un ottimo esempio di quanto appena detto. Non avremmo mai capito, grazie ai soli metodi psicoanalitici, che la forma fondamentale della coscienza è quella affettiva. Non lo sapremmo. Perché, invece, lo sappiamo? Lo sappiamo perché, quando osserviamo il cervello dal punto di vista anatomico (attraverso metodi neuroscientifici), stiamo in effetti guardando quale parte del cervello genera la coscienza.

In altre parole, ci stiamo domandando: «da dove viene la coscienza anatomicamente, cioè in un modo che è possibile vedere con i nostri occhi?». Non viene dalla corteccia, né dalle aree cerebrali percettive sensoriali. Viene dal profondo. Questa è una scoperta anatomica, che è stato possibile fare grazie ai casi di danno a quelle parti del cervello. Abbiamo potuto vedere, infatti, dove si trovava il danno. E quindi abbiamo avuto modo di applicare tutti quei metodi ulteriori (come la EEG, la stimolazione cerebrale profonda, la PET), che sono in grado di mostrarci quali sostanze neurochimiche vengono attivate quando l’individuo è cosciente e quando non lo è. I metodi neuroscientifici ci hanno insegnato che la coscienza viene dall’interno, non dall’esterno, e che proviene dalla parte del cervello in cui si trovano le pulsioni, che Freud riteneva inconscio. È molto difficile vedere quelle cose usando solo la psicoanalisi.

 

Ritiene che questo nuovo approccio possa essere utile in sede penale, per aiutare i giudici a prendere decisioni in ordine alla responsabilità penale?

Non sono un esperto di diritto penale, ovviamente, e quello che dico si basa su principi generali e il principio generale deve essere che più elementi abbiamo, meglio è. Meglio ancora se le fonti di prova a disposizione sono differenziate. Avere un solo elemento significa avere maggiori probabilità di commettere errori, perché ogni prospettiva, ogni punto di vista, comporta potenziali errori. Pertanto, la possibilità di osservare lo stesso fenomeno, e le proprie conclusioni, da molteplici punti di vista può essere solo un vantaggio.

Ogni metodo ha i propri punti di forza e di debolezza. Questo è il motivo per cui, a mio parere, non siamo ancora arrivati ​al punto di poter dire grazie ai metodi neuroscientifici: «questa persona sta dicendo la verità e quest’altra persona invece no». Penso però che questi metodi ci aiutino a capire, almeno in termini generali, come funziona la nostra mente.

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Quale è la sua opinione riguardo a quelle teorie secondo le quali alcuni deficit cerebrali (che interessano l’area della corteccia frontale o dell’amigdala) potrebbero spiegare il comportamento criminale?

Certamente esistono alcune prove in tal senso, ma esse non implicano che coloro che pongono in essere condotte violente abbiano qualcosa che non va nei loro lobi frontali. Implicano però il contrario: chi presenta dei danni ai lobi frontali, è più propenso a commettere atti violenti e criminali. Ha meno controllo dei propri impulsi. Questo dato è già ben consolidato. Le persone che presentano dei danni alle zone della corteccia frontale deputate ai processi inibitori hanno meno responsabilità, sono meno in grado di controllare i loro impulsi rispetto agli altri. Credo che più comprenderemo queste cose, più saremo in grado di capire noi stessi.

Le persone che presentano dei danni alle zone della corteccia frontale deputate ai processi inibitori hanno meno responsabilità, sono meno in grado di controllare i loro impulsi rispetto agli altri. Credo che più comprenderemo queste cose, più saremo in grado di capire noi stessi

La neuropsicoanalisi può dirci qualcosa di nuovo sulla responsabilità personale?

Sì, sono convinto che la neuropsicoanalisi (e anche le neuroscienze) possa aiutarci a comprendere meglio questo tipo di meccanismi e, in definitiva, a capire qualcosa in più in ordine alla responsabilità personale. Non vorrei tuttavia esagerare. E credo che sia molto facile esagerare – si parla infatti spesso di “neuromania”, intesa come la propensione a credere che quasi tutto possa essere compreso neuroscientificamente.

Penso infatti che ci siano alcuni problemi filosofici riguardanti la responsabilità personale e il libero arbitrio, che rimarranno sempre problemi filosofici. D’altra parte, penso anche che abbiamo a disposizione strumenti per rafforzare sempre più la nostra comprensione in ordine a questo genere di cose.

Riprendiamo l’esempio di cui parlavamo poco fa, riguardante le persone che presentano una lesione cerebrale nelle aree deputate ai meccanismi di inibizione. Quelle persone sono meno responsabili nel senso che hanno una ridotta capacità di controllo degli impulsi. Tale fattore, senza dubbio, avrà efficacia – quantomeno – attenuante, in sede di valutazione sul se (e sul quanto) della responsabilità connessa all’azione.

Un ulteriore passo in avanti è offerto dal caso di coloro che, ad esempio, soffrono di un disturbo comportamentale del sonno REM, in cui una persona è addormentata, ma può commettere (e molto lo fanno) atti violenti. Ecco che, in questi casi, si potrebbe pensare che non esiste responsabilità: se una persona uccide un’altra persona nel sonno, non può essere considerata responsabile del suo gesto. E infatti esistono precedenti giurisprudenziali che si sono conclusi con un giudizio di non colpevolezza.

Al contrario, si tende a pensare che un individuo perfettamente vigile, che ha il pieno controllo del proprio comportamento ed è in grado di fare proiezioni sul futuro, sia responsabile di ciò che fa.

Da qualche parte tra quei due estremi, troviamo le persone con danni ai lobi frontali. Essi sono meno responsabili, il che non significa che non abbiano alcuna responsabilità. E poi esistono tutta una serie di sfumature intermedie tra queste categorie. Ecco perché ho detto che non dobbiamo fare l’errore di credere che la neuroscienza possa, come d’incanto, rimuovere tutti i dilemmi filosofici connessi alla responsabilità personale. Ma penso anche che anche l’esempio del disturbo del sonno REM dimostra che la neuroscienza ha qualcosa da dire. Cinquant’anni fa non conoscevamo questo disturbo. Cento anni fa non sapevamo delle lesioni del lobo frontale. Questi sono progressi scientifici che hanno conseguenze importanti per il mondo.

 

Più in generale, quale è la sua opinione sul ricorso alla pena come strumento per controllare il comportamento e favorire il cambiamento personale?

È un problema antico. In psicologia c’è un’ampia letteratura sui limiti della punizione come approccio principale al problema della criminalità. D’altra parte, esistono anche prove recenti contro l’utilità del castigo come strumento di lotta alla criminalità, nell’ottica del miglioramento sociale. Sfortunatamente però, come sapete perfettamente, il diritto penale non si fonda solo sulla conoscenza scientifica. Nella maggior parte dei paesi, è coinvolta anche la politica. La politica ha bisogno del sostegno del supporto del popolo, e il popolo chiede vendetta. Pertanto, penso che un compito importante sia quello di educare le persone, educare il pubblico circa i limiti della punizione. Credo che occorra cambiare l’opinione popolare, mentre non abbiamo bisogno di cambiare l’opinione degli esperti: le prove a disposizioni sono abbastanza forti. La punizione non è il modo migliore per rendere migliore o più giusta la nostra società, per quanto riguarda il comportamento criminale. Dobbiamo educare il pubblico, quindi.

È un problema antico. In psicologia c’è un’ampia letteratura sui limiti della punizione come approccio principale al problema della criminalità. D’altra parte, esistono anche prove recenti contro l’utilità del castigo come strumento di lotta alla criminalità, nell’ottica del miglioramento sociale. Sfortunatamente però, come sapete perfettamente, il diritto penale non si fonda solo sulla conoscenza scientifica. Nella maggior parte dei paesi, è coinvolta anche la politica. La politica ha bisogno del sostegno del supporto del popolo, e il popolo chiede vendetta

Pensi che esistano molteplici motivazioni di base, diversi valori e differenti concezioni di ciò che è bene e di ciò che è male?

Esiste un sistema di valori di base che tutti noi, in quanto esseri umani, condividiamo. Ad esempio, c’è un istinto naturale all’attaccamento. Non riguarda solo la razza umana, ma tutti i mammiferi. Abbiamo bisogno di qualcuno che si prenda cura di noi; neppure gli uccelli sono in grado di badare a se stessi. È un bene che ci sia qualcuno che si occupa di noi: tutti i mammiferi lo sanno. Il nostro sistema di valori e il nostro senso di ciò che è “giusto” e “sbagliato” non è qualcosa che va dall’alto verso il basso, non ha nulla di astratto. Al contrario, è qualcosa di radicato nella nostra stessa natura.

Credo che il diritto penale prenda le mosse proprio da questi valori di base. Penso che parta da qualcosa di biologico, che riguarda i mammiferi. Che ci siano alcuni principi di base, connessi alla paura, alla rabbia, alla sessualità, all’attaccamento, alla cura materna, al gioco e alla ricerca (seeking). In base a questo istinto (seeking) è un bene essere curiosi, essere coinvolti, interagire, essere ottimisti, essere entusiasti. All’opposto, non fare niente è un male. Restare sdraiati a letto tutto il tempo, non tentare mai nulla, non fare niente, non esplorare nulla, non imparare mai nulla. È questo che intendiamo quando diciamo: sei pigro! Non va bene! Credo che questi criteri etici, questi valori, in realtà riconducano a meccanismi biologici molto di base ed è chiaro il motivo: biologicamente, “non lavorare” è una cosa negativa. Dobbiamo lavorare per procurarci da mangiare e da bere.

Negli ultimi anni (a partire dagli anni ’90) abbiamo imparato che, nel cervello dei mammiferi, esistono numerosi meccanismi motivazionali che si fondano su istinti di base. Il punto è proprio la loro molteplicità. Non due, ma sette. Quando parliamo delle emozioni di base, parliamo di sette emozioni. Sette forze motivazionali di base. Per questo motivo, gran parte della maturità emotiva, della capacità di apprendimento emotivo, dello sviluppo emotivo e dell’educazione emotiva è il frutto un equilibrio tra di esse. È molto difficile assecondare ciascuna di queste esigenze, ma dobbiamo metterle tutte in connessione le une con le altre: è a questo che serve lo sviluppo emotivo. Ognuno di noi deve imparare a gestire bisogni di base contrastanti.

È per questo che la vita è difficile, credo.

Quando parliamo delle emozioni di base, parliamo di sette emozioni. Sette forze motivazionali di base […]. È molto difficile assecondare ciascuna di queste esigenze, ma dobbiamo metterle tutte in connessione le une con le altre: è a questo che serve lo sviluppo emotivo. Ognuno di noi deve imparare a gestire bisogni di base contrastanti. È per questo che la vita è difficile, credo

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Un incontro di saperi sull’uomo e sulla società
per far emergere l’inatteso e il non detto nel diritto penale

 

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ISSN 2704-6516 (rivista)

 

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