Nel Suo libro appena uscito Anche i ricchi rubano (Gruppo Abele, 2020), come già nel precedente Giustizia, roba da ricchi (Laterza, 2017), Lei sostiene, senza mezzi termini, che il diritto penale è tanto spietato con i poveri quanto indulgente con i ricchi.
Non si tratta di un’opinione ma di una constatazione. Per capire quale è il volto di un sistema penale bisogna vedere chi, alla fine, si ritrova a scontare davvero una pena, e chi invece la fa franca, e le statistiche sulla composizione della popolazione carceraria nel nostro paese parlano chiaro. Un’ampia fetta di chi va in prigione è costituita da piccoli spacciatori: una volta si trattava perlopiù di tossicodipendenti, che a loro volta vendevano stupefacente per poterne acquistare per sé, mentre oggi nel giro della droga sono entrati molti extracomunitari irregolari privi di alternative lecite di lavoro. Ampiamente rappresentati sono anche ladri, rapinatori, ricettatori. Infine, in misura minore, troviamo fra i reclusi omicidi, stupratori, mafiosi e camorristi. Quasi assenti sono i corruttori, i responsabili di gravi episodi di infortuni sul lavoro e di inquinamento ambientale e, in generale, i delinquenti di elevato status sociale.
Per capire quale è il volto di un sistema penale bisogna vedere chi, alla fine, si ritrova a scontare davvero una pena, e chi invece la fa franca, e le statistiche sulla composizione della popolazione carceraria nel nostro paese parlano chiaro
Queste percentuali così sbilanciate non hanno riscontro in altri paesi europei. Le statistiche comparate ci rivelano che, ad esempio, in Germania gli evasori fiscali che scontano una pena detentiva sono quasi venti volte quelli italiani[1]. La sproporzione non è certo dovuta al fatto che da noi gli illeciti tributari costituiscano un fenomeno marginale: sappiamo benissimo che l’evasione costituisce uno dei maggiori problemi della nostra economia.
Non è che i ricchi e i potenti non siano mai arrestati. Talora accade, anzi, a partire dalla stagione di “Mani pulite” è accaduto sempre più spesso, e questo alimenta l’illusione che la legge penale valga per tutti, ricchi e poveri, potenti ed emarginati. Al di là della enfatizzazione delle inchieste e delle condanne in primo grado, quando si arriva a vedere come si conclude tutta la vicenda processuale si scopre però che, o perché sono decorsi i termini di prescrizione o per assoluzioni nel merito, quasi nessun potente finisce dietro le sbarre.
Non è che i ricchi e i potenti non siano mai arrestati […]. Quando si arriva a vedere come si conclude tutta la vicenda processuale si scopre però che, o perché sono decorsi i termini di prescrizione o per assoluzioni nel merito, quasi nessun potente finisce dietro le sbarre
… Eppure, fin dalla premessa del Suo ultimo libro, Lei chiarisce che i reati dei ricchi «producono mediamente più danni patrimoniali e sofferenze sociali di quelli commessi dai poveri».
I reati dei cosiddetti “colletti bianchi” sono sicuramente molto più devastanti di quelli di chi vive ai margini della società. Mentre il ladro, lo scippatore, il truffatore, colpiscono una persona alla volta, e quasi sempre arrecando un nocumento modesto, i responsabili delle grandi bancarotte mandano in crisi migliaia e migliaia di persone, fra dipendenti, azionisti, clienti e fornitori. Per di più si crea un effetto domino: il fallimento di un’impresa trascina con sé quello di molte altre.
Analogamente, nei crack bancari che hanno fatto perdere ai piccoli risparmiatori tutti i loro soldi, inducendo talora al suicidio, il numero delle persone offese è stato elevatissimo. Gli esempi potrebbero continuare.
Ma oltre al dato quantitativo c’è, ancora più importante, quello qualitativo. La criminalità dei potenti non attenta solo al patrimonio, ma alla vita e alla salute delle persone. Basti pensare alle vicende giudiziarie che hanno avuto ad oggetto gravissimi fenomeni di inquinamento ambientale dovuto all’utilizzo dell’amianto, finite in un nulla di fatto per via della sopravvenuta prescrizione, o – per restare alla più stretta attualità – a tutti i tarantini che continuano ad ammalarsi e a morire per via della mancata adozione di misure di sicurezza all’ILVA.
I reati dei cosiddetti “colletti bianchi” sono sicuramente molto più devastanti di quelli di chi vive ai margini della società. Mentre il ladro, lo scippatore, il truffatore, colpiscono una persona alla volta, e quasi sempre arrecando un nocumento modesto, i responsabili delle grandi bancarotte mandano in crisi migliaia e migliaia di persone, fra dipendenti, azionisti, clienti e fornitori
Poi bisogna considerare gli effetti indiretti dei reati. L’evasione fiscale non fa solo mancare allo Stato risorse per i servizi, ma fa sì che i contribuenti onesti paghino di più; la corruzione non fa solo fuori l’imprenditoria sana, ma comporta per tutta la collettività un aumento dei prezzi dei beni, perché bisogna considerare i costi delle tangenti.
Per quali motivi la maggior parte dei detenuti sono persone provenienti dai ceti sociali più disagiati, spesso autori di reati di scarsa gravità, mentre molto minore è il numero di coloro che si trovano in carcere per aver commesso reati riconducibili alla categoria dei white collar crimes?
Una prima spiegazione è banale: in genere chi fa parte dei ceti medio-alti ha seguito un percorso scolastico più avanzato che gli consente di aggirare la legge senza violarla apertamente, mentre chi è povero è povero anche culturalmente, non ha studiato o ha studiato male, è meno capace di destreggiarsi, segue schemi di comportamento più elementari.
Poi ci sono le difficoltà sul piano probatorio: è molto più semplice “inchiodare” un rapinatore alle proprie responsabilità che dimostrare il nesso di causalità fra la mancata adozione di misure di sicurezza in ambito lavorativo e le malattie professionali, che si manifestano in genere a distanza di decenni, quando la fabbrica non è più la stessa.
In genere chi fa parte dei ceti medio-alti ha seguito un percorso scolastico più avanzato che gli consente di aggirare la legge senza violarla apertamente, mentre chi è povero è povero anche culturalmente
Ma, soprattutto, la principale causa del trattamento benevolo dei crimini dei colletti bianchi risiede in un sistema di pene squilibrato, che affonda le sue radici nel codice Rocco del 1930, risalente all’epoca fascista e tuttora in vigore, sia pure profondamente modificato. Il codice risente di un impianto ideologico che pone al centro il patrimonio individuale anziché la persona. Ad essere sanzionati con particolare rigore sono i reati “di strada”, cioè quelli abitualmente commessi dai poveri, per i quali si è assistito ancora di recente ad un aumento abnorme delle sanzioni – penso in particolare a rapine ed estorsioni –, mentre viceversa sono relativamente contenute le sanzioni previste per reati che ledono la salute oppure il patrimonio collettivo, come quelli fiscali e societari.
Ma, soprattutto, la principale causa del trattamento benevolo dei crimini dei colletti bianchi risiede in un sistema di pene squilibrato, che affonda le sue radici nel codice Rocco del 1930 […]. Il codice risente di un impianto ideologico che pone al centro il patrimonio individuale anziché la persona
È vero che negli ultimi anni questo squilibrio si è notevolmente attenuato: sono entrati a fare parte del codice i delitti contro l’ambiente; sono state innalzate le pene per molte categorie di reati tradizionalmente “trascurati” dal legislatore quali la corruzione e la concussione, gli illeciti tributari, l’intermediazione illecita e lo sfruttamento sul lavoro. Ma all’aumento generalizzato delle sanzioni per i reati oggettivamente più gravi non è corrisposto un parallelo ridimensionamento di quelle previste per i fatti bagatellari o comunque di più modesto impatto sociale, ad iniziare dal furto, per il quale la pena va da sei mesi a dieci anni di reclusione. Non mi risulta che ci siano stati, perlomeno in epoca recente, ritocchi al ribasso delle sanzioni; si è semplicemente depenalizzato, anche quando le condotte non lo avrebbero meritato, rendendo difficile l’azione in sede civile perché spesso non si sa chi è il responsabile dell’illecito e non c’è più un pubblico ministero che fa le indagini per scoprirlo.
Il risultato di questo livellamento delle pene verso l’alto è duplice. Il primo è un segnale culturale: il furto di strada e il pagamento di mazzette per aggiudicarsi un appalto sono più o meno la stessa cosa, i reati hanno tutti lo stesso disvalore. Non c’è una proporzione della risposta repressiva legata alla diversa lesività dei fatti e che tenga conto dei valori costituzionali, per i quali la persona viene prima di tutto.
La seconda conseguenza è di carattere eminentemente pratico ed è la ragione per cui difficilmente i colletti bianchi finiscono dietro le sbarre. Le nostre prigioni sono attualmente sovraffollate e in ogni caso insufficienti a contenere tutte le persone che dovrebbero scontare una pena detentiva. La situazione sarebbe ancora più drammatica se non fosse che, per via di deficienze amministrative, una fetta di condannati non viene incarcerata. Rammento il grido d’allarme lanciato dal Presidente della Corte d’appello di Napoli alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario del 2017: nel distretto del capoluogo partenopeo c’erano 12.000 sentenze di condanne a pena detentiva divenute definitive e non eseguite per mancanza di personale amministrativo[2].
Per ovviare al collasso del sistema giudiziario e penitenziario si sono allora inventati meccanismi deflattivi, sempre più moltiplicatisi negli ultimi anni, per fare sì che ad una condanna non segua necessariamente la sua espiazione: da ultimo la sospensione del processo con messa alla prova nel 2014, la non punibilità per particolare tenuità del fatto nel 2015, la riparazione del danno nel 2017. Si tratta di istituti ispirati all’opportunità di evitare un inutile impatto con la struttura carceraria e volti a favorire la resipiscenza del colpevole, ma la ragione vera è che le prigioni non bastano e non ci sono i soldi per costruirne di nuove.
A beneficiare di questi meccanismi sono soprattutto i delinquenti di ceto sociale medio-alto, sia perché per loro è più semplice aprire il portafoglio e chiudere il processo, sia perché, per molti dei classici reati degli imprenditori e dei politici, a pene edittali elevate nel massimo non corrispondono minimi edittali altrettanto severi, e sono questi ultimi che – anche grazie allo sconto fino a un terzo riconosciuto a chi accede ai riti alternativi del patteggiamento e del processo abbreviato – consentono di mantenere la condanna entro i limiti per ottenere la sospensione condizionale della pena.
Le nostre prigioni sono attualmente sovraffollate e in ogni caso insufficienti a contenere tutte le persone che dovrebbero scontare una pena detentiva […]. Per ovviare al collasso del sistema giudiziario e penitenziario si sono allora inventati meccanismi deflattivi, sempre più moltiplicatisi negli ultimi anni […]. A beneficiare di questi meccanismi sono soprattutto i delinquenti di ceto sociale medio-alto, sia perché per loro è più semplice aprire il portafoglio e chiudere il processo
Ad esempio per il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, più noto come “capolarato”, la pena minima è di cinque anni di reclusione solo se c’è stata violenza o minaccia, in caso contrario è di un anno. La realtà ci rivela che nella maggior parte dei casi non c’è bisogno di usare intimidazione o coercizione nei confronti di persone disperate, disposte a sottostare a qualunque condizione pur di lavorare, e quindi chi viene incriminato per avere sfruttato gli immigrati ha buone possibilità di cavarsela senza dovere scontare una pena detentiva.
Per quali ragioni tendenzialmente della criminalità dei potenti si sente parlare poco, o comunque molto meno di quanto non accada con riguardo ai reati commessi da chi potente non è, anche tra gli stessi studiosi di diritto?
La “scoperta” da parte di alcuni giuristi della criminalità dei potenti risale almeno allo scandalo della Banca Romana del 1893. Ad avviare poi una riflessione più sistematica fu lo studioso statunitense Edwin Sutherland nel 1939, con un libro che destò molto scalpore, White Collar Crime, e che diede vita alla espressione ancora oggi utilizzatissima di “colletti bianchi” per designare i delinquenti di elevato stato sociale. Erano elaborazioni di intellettuali isolate, ma sarebbe stato difficile nel contesto del secolo scorso, e in particolare nell’Italia fascista, avviare una riflessione più ampia e controcorrente.
Negli ultimi decenni c’è finalmente stata, da parte di studiosi stranieri e anche nel nostro paese (penso ad esempio al bel libro di Amedeo Cottino, Disonesto, ma non criminale, uscito nel 2005), una attenzione adeguata sia verso le singole categorie di reati tipici delle fasce sociali altolocate sia verso il fenomeno nel suo complesso.
Il problema è che questa sensibilità ormai diffusa nel mondo accademico non si è tradotta in una analoga presa di consapevolezza nella larga maggioranza della popolazione, che continua a ritenere che criminali siano unicamente gli appartenenti alle classi sociali disagiate.
L’associazione biunivoca fra delinquenza e marginalità sociale è sicuramente influenzata dal fatto che in carcere finiscono sempre i soliti noti. Ma in questa percezione distorta dei fenomeni criminali giocano anche le diverse caratteristiche dei reati. Anzitutto una minore visibilità dei comportamenti criminali. I reati di strada sono caratterizzati da comportamenti semplici e immediatamente percepibili; le condotte delittuose di ricchi e potenti sono invece di difficile comprensione, sia perché già di per sé meno convenzionali, più originali e sfumate, sia perché le norme che le contemplano sono spesso scritte in modo contorto, pongono condizioni, soglie minime di punibilità, clausole suscettibili di diverse interpretazioni.
Il problema è che questa sensibilità ormai diffusa nel mondo accademico non si è tradotta in una analoga presa di consapevolezza nella larga maggioranza della popolazione, che continua a ritenere che criminali siano unicamente gli appartenenti alle classi sociali disagiate. L’associazione biunivoca fra delinquenza e marginalità sociale è sicuramente influenzata dal fatto che in carcere finiscono sempre i soliti noti
Poi c’è la minore evidenza del rapporto fra il comportamento vietato e il danno. Per alcune categorie di reati il tempo e il luogo in cui si producono gli effetti lesivi non coincidono con quelli della azione od omissione e spesso, come nel caso delle malattie professionali o degli illeciti ambientali, passano anche decenni, con tutte le conseguenti difficoltà probatorie. Per altri reati manca comunque la consapevolezza del nesso di causalità: fra i tumori e la somministrazione di sostanze proibite agli animali di allevamento, fra le liste d’attesa per le visite ospedaliere e l’evasione fiscale.
Infine un ruolo cruciale è giocato dall’informazione. L’enorme divario di risorse materiali e immateriali fra datori di lavoro e lavoratori, fra grandi gruppi finanziari e piccoli investitori fa sì che ad alcuni eventi, come le morti sul lavoro e i disastri ambientali, sia riservata su giornali e televisione un’attenzione minima, rendendoli praticamente invisibili. Giornali e televisione enfatizzano omicidi e violenze, che spesso vengono presentati come prima notizia, mentre dedicano spazi marginali ai delitti dei colletti bianchi, così distorcendo la percezione della criminalità.
È per l’insieme di questi fattori che purtroppo chi è vittima di certi reati non se ne rende conto e non li considera neppure tali.
Infine un ruolo cruciale è giocato dall’informazione. L’enorme divario di risorse materiali e immateriali fra datori di lavoro e lavoratori, fra grandi gruppi finanziari e piccoli investitori fa sì che ad alcuni eventi, come le morti sul lavoro e i disastri ambientali, sia riservata su giornali e televisione un’attenzione minima, rendendoli praticamente invisibili
Tra le ragioni della disparità di trattamento fra ricchi e poveri nel diritto penale, Lei individua anche una componente culturale. Riferisce infatti dell’esistenza di una «scala distorta di valori», tale per cui, ad esempio, «le rapine sono considerate più gravi delle morti sul lavoro e l’immigrazione irregolare di stranieri più dannosa del pagamento di tangenti. In certi casi passa addirittura il messaggio che non vi è stata violazione delle leggi, ma ribellione a regole autoritarie».
Da dove origina, secondo Lei, questa distorsione? Chi, nella nostra società, può avere interesse a mantenere questa falsa percezione, quasi di “dannosità sociale minima”, del crimine dei potenti?
Accennavo prima al ruolo giocato dall’informazione. Ma il problema è sicuramente più complesso. Nelle nostre società di capitalismo avanzato c’è una istintiva ammirazione e reverenza verso i detentori di ricchezza, che porta ad essere nei loro confronti molto più indulgenti rispetto a chi potente non è. In sostanza, imprenditori, banchieri, industriali, quando tengono comportamenti illeciti, perfino se sistematici, non sono etichettati come “delinquenti”, a differenza di quanto avviene nei confronti di gruppi sociali come i rom o gli stranieri extracomunitari. Nel migliore dei casi, quando non si pensa a persecuzioni o ad errori da parte della magistratura, sono semplicemente considerate persone che hanno sbagliato.
È la stessa logica dell’impresa, improntata, almeno in astratto, ad una concorrenza senza freni, che induce a violare le regole e a normalizzare la devianza. Conta il successo, non come lo si ottiene. Tanto più che si rivendicano i benefici che le condotte illecite apporterebbero alla collettività: non investire in sicurezza sul lavoro o in misure antinquinamento consente – si dice – di assumere un maggior numero di persone; non pagare le tasse aumenta il denaro in circolazione e favorisce la crescita.
È assolutamente necessario rivedere questa impostazione ideologica e ripensare ad una economia di mercato “sana”, senza lavoro nero, corruzione ed evasione fiscale, ad un sistema che premi gli onesti e non i furbi.
Nelle nostre società di capitalismo avanzato c’è una istintiva ammirazione e reverenza verso i detentori di ricchezza, che porta ad essere nei loro confronti molto più indulgenti rispetto a chi potente non è […]. Nel migliore dei casi, quando non si pensa a persecuzioni o ad errori da parte della magistratura, sono semplicemente considerate persone che hanno sbagliato
Qual è oggi il rapporto tra diritto penale e politica?
È un rapporto strumentale. Negli ultimi anni la politica penale, anziché essere ispirata ai principi di ragionevolezza e proporzionalità nella risposta repressiva, che – come più volte affermato dalla Corte costituzionale – dovrebbero costituire il faro del legislatore, è stata utilizzata per intercettare il consenso popolare. A tal fine si sono amplificate le paure della gente per la microcriminalità di strada, con l’obiettivo di distogliere l’attenzione dai massicci tagli alla spesa pubblica e dal crescere delle diseguaglianze.
È il fenomeno che è stato definito come “populismo penale”. Lo smantellamento dei servizi pubblici, che fino a qualche decennio veniva giustificato in nome dell’emergenza, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso è infatti diventato una scelta politica costante e voluta. Lo Stato proclama la propria impossibilità di farsi carico di tutti i bisogni e si tira indietro per lasciare spazio all’iniziativa privata; nel contempo si rilegittima come Stato di sicurezza, intesa con riferimento non alla sicurezza sociale (sanità, pensioni, servizi) ma alla incolumità personale. In questo scenario la povertà interessa unicamente sotto il profilo criminale, senza che ci sia un disegno complessivo per superare le sperequazioni e le condizioni di emarginazione.
Negli ultimi anni la politica penale, anziché essere ispirata ai principi di ragionevolezza e proporzionalità nella risposta repressiva […], è stata utilizzata per intercettare il consenso popolare. A tal fine si sono amplificate le paure della gente per la microcriminalità di strada, con l’obiettivo di distogliere l’attenzione dai massicci tagli alla spesa pubblica e dal crescere delle diseguaglianze
Dati alla mano, la curva dei crimini di strada in Italia non è tale da giustificare un giro di vite, semmai l’inverso, essendo stabili e addirittura in calo.
Nel suo ultimo libro “Anche i ricchi rubano” Lei formula alcune riflessioni interessanti sul linguaggio usato dal diritto penale. Ragionando sul “diverso sguardo” che quest’ultimo riserva ai deboli e ai potenti, osserva infatti che «c’è un pudore» nei termini usati per descrivere i delitti dei ricchi: «il pubblico amministratore che ruba è accusato di peculato, vocabolo che affonda le radici nel latino “gregge” e di cui si è smarrita l’etimologia; l’imprenditore che fa sparire soldi e beni dell’azienda è responsabile di bancarotta, termine che evoca un intoppo (si è rotta la banca); il contribuente che non paga le tasse sottraendo soldi alla collettività risponde di evasione fiscale, come se si trattasse di fuggire dall’erario».
A tal proposito, ci pare che alcuni dei termini utilizzati nel codice penale non descrivano in modo chiaro e univoco il concetto cui intendono fare riferimento (alcuni esempi possono essere la nozione di “vizio di mente”, con riguardo all’imputabilità, o quella di “intossicazione cronica” per quanto concerne la disciplina della dipendenza da alcol e droghe). Circostanza, questa, dalla quale può originare una certa confusione, e dunque anche una difficoltà, in capo al giudice, in punto di interpretazione e applicazione delle norme penali. Quale è la sua opinione? Pensa che sia possibile restituire un significato alle parole del diritto penale?
Il problema del linguaggio nel diritto penale si pone ad almeno due livelli.
Il primo, non strettamente giuridico, è quello, per così dire, della “vulgata” popolare. I termini non sono mai neutri e utilizzare l’uno o l’altro crea delle suggestioni. Un ladro dovrebbe essere definito ladro sia che si impossessi della merce esposta in un supermercato, sia che rubi ai cittadini con le tangenti, ai risparmiatori con i bond fasulli, allo Stato evadendo le tasse. Ma chi ruba al supermercato è chiamato ladro, i responsabili di altre tipologie di illecito no. Allo stesso modo, le donne che esercitano il meretricio lungo le strade sono definite spregiativamente “puttane”, mentre per quelle che si vendono ai potenti di turno si parla elegantemente di “escort”, ovvero accompagnatrici, con tutte le conseguenti difficoltà di inquadramento delle condotte quando si tratta di applicare la legge sul contrasto al favoreggiamento o allo sfruttamento della prostituzione.
I termini non sono mai neutri e utilizzare l’uno o l’altro crea delle suggestioni. Un ladro dovrebbe essere definito ladro sia che si impossessi della merce esposta in un supermercato, sia che rubi ai cittadini con le tangenti, ai risparmiatori con i bond fasulli, allo Stato evadendo le tasse. Ma chi ruba al supermercato è chiamato ladro, i responsabili di altre tipologie di illecito no
Poi c’è un altro aspetto della questione-linguaggio, ed è quello dell’utilizzo di tecnicismi oscuri perfino per i giuristi, che rendono complessa l’applicazione delle leggi e la loro comprensione da parte di chi giurista non è. Un esempio paradigmatico è quello della norma sul falso in bilancio così come modificata nel 2015. Il reato consiste nell’esporre nei bilanci «fatti materiali rilevanti» non veritieri, «in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore». Perché specificare che i fatti devono essere «materiali»? È evidente che in un bilancio non si prendono in considerazione fatti spirituali. Neppure può sostenersi riduttivamente che «materiali» sta per «informazioni obiettive», perché allora resterebbero fuori dalla sfera della punibilità le falsità concernenti le stime e le previsioni, cioè proprio le condotte più insidiose. Per rimediare a queste storture la Corte di cassazione ha messo una toppa, affermando che l’espressione «fatti materiali» non ha lo stesso significato del linguaggio comune ma, come nelle leggi comunitarie, sta per «informazioni rilevanti»; che a sua volta l’aggettivo «rilevanti» non è sovrabbondante ma indica che le informazioni devono essere tali da influenzare le decisioni; che l’ulteriore inciso «in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore» non è neanch’esso ultroneo ma vuol dire che il falso non deve essere grossolano[3].
Poi c’è un altro aspetto della questione-linguaggio, ed è quello dell’utilizzo di tecnicismi oscuri perfino per i giuristi, che rendono complessa l’applicazione delle leggi e la loro comprensione da parte di chi giurista non è
Ma, al di là del linguaggio, c’è più in generale il problema della inflazione delle norme penali, scritte e votate inseguendo l’emergenza vera o presunta del momento e pensando di cavalcare il consenso popolare, senza neanche preoccuparsi di verificare se nel sistema ci sono già altre norme repressive che servono a tal fine. Così qualche anno fa si era proposto di inserire nel codice il delitto di “omicidio di identità” per reprimere gli episodi di aggressione di donne deturpandone il volto con dell’acido, trascurando che esiste già il reato di lesioni personali gravissime, punito con la reclusione fino a dodici anni, per «la deformazione ovvero lo sfregio permanente del viso». Ecco, questo modo di legiferare rientra nel discorso più complessivo sul populismo penale.
Torniamo al tema da cui siamo partiti: la repressione. Quanti, tra i detenuti che appartengono alle categorie disagiate, sono realmente pericolosi per la società? Alla luce della sua analisi complessiva, ritiene che il diritto penale “funzioni bene” con i deboli – in termini di prevenzione, riabilitazione ecc. – o, viceversa, dovremmo ipotizzare nuovi strumenti per contrastare la criminalità “di strada”?
Risposta alla prima domanda: una bella fetta di detenuti non sono particolarmente pericolosi. Penso agli extracomunitari che scontano una pena per reati legati alla immigrazione clandestina o per avere fornito false generalità onde evitare l’espulsione, o ai poveracci che raccolgono e commerciano rottami senza essere autorizzati e che alla lunga, dopo avere collezionato un po’ di condanne, finiscono dentro.
Il punto è che si è passati – uso un’espressione di Pietro Buffa, ex direttore del carcere di Torino – da una «carcerazione penale» a una «carcerazione sociale»[4], nel senso che si demanda al carcere il compito di contenere fenomeni sociali e geopolitici che non gli competerebbero e che le prigioni sono diventate una sorta di “contenitore” in cui ci sta un po’ di tutto, tenendo insieme accanto a persone innocue detenuti ad alta pericolosità sociale, come i mafiosi, per i quali sono previsti regimi penitenziari differenziati.
Una bella fetta di detenuti non sono particolarmente pericolosi […]. Il punto è che si è passati – uso un’espressione di Pietro Buffa, ex direttore del carcere di Torino – da una «carcerazione penale» a una «carcerazione sociale» […]; le prigioni sono diventate una sorta di “contenitore” in cui ci sta un po’ di tutto
In ogni caso – e vengo alla seconda domanda – sicuramente il carcere, per come è concepito oggi, è uno strumento inadeguato rispetto a quella che dovrebbe essere la sua funzione delineata dalla Costituzione: oltre che punire, favorire il recupero del reo. I detenuti che lavorano, all’esterno o anche solo all”interno, sono una minoranza; gli stimoli culturali che favoriscono il maturare di un ripensamento mancano o sono insufficienti; spesso i rapporti fra i detenuti sono improntati alla violenza e alla sopraffazione. Accade così che chi delinque perché privo di mezzi di sostentamento o, per dirla più brutalmente, perché ha fame, quando esce ricomincia da capo.
Ci sono studiosi come Luigi Ferrajoli che, registrando questo fallimento del sistema carcerario, hanno teorizzato la necessità di un «diritto penale minimo»[5], che veda il ricorso alla reclusione solo per i crimini più gravi. Si tratta di una prospettiva che deve costituire un orizzonte ideale per i penalisti, ma irrealizzabile nel breve-medio periodo.
Più realisticamente, bisognerebbe invece articolare maggiormente il sistema delle pene. La legge delega 2 aprile 2014 n. 67 aveva delegato il governo a introdurre, oltre all’istituto della messa alla prova, due ulteriori pene principali: la reclusione domiciliare e l’arresto domiciliare, con durata continuativa, o per singoli giorni della settimana, o per fasce orarie, comminabili per i reati puniti con pene detentive fino a tre anni. Questa parte della delega però non è stata attuata, è mancato il coraggio politico. Si è così persa l’occasione per una sanzione estremamente flessibile, che consentiva di evitare gli effetti desocializzanti del carcere e consentiva ai condannati di non perdere l’attività lavorativa o di cercarne una.
E con riguardo ai ricchi? Se le pene fossero effettive, il carcere potrebbe essere lo strumento adatto a ridurre i danni provocati dagli illeciti dei colletti bianchi? In caso contrario, quali possono essere le alternative?
Per le ragioni che ho appena esposto, la pena detentiva non è la soluzione ideale per nessuno. Sicuramente però essa sui “colletti bianchi”, per l’eccezionalità che essa rappresenta nel corso di vite che scorrono tranquille all’insegna dell’agiatezza, ha un impatto ed esplica un effetto deterrente maggiore che sui delinquenti di strada, che sono abituati ad entrare ed uscire di galera.
Il paradosso è che però attualmente nelle prigioni, storicamente pensate per i ricchi, per evitare loro la pena capitale, ci vanno quasi solo i poveri. Mi consenta perciò di dire, con una certa dose di cattiveria, che chi ha commesso gravi reati senza alcuna necessità, mosso dalla cupidigia, un po’ di carcere può tranquillamente farselo.
Per le ragioni che ho appena esposto, la pena detentiva non è la soluzione ideale per nessuno. Sicuramente però essa sui “colletti bianchi” […] ha un impatto ed esplica un effetto deterrente maggiore che sui delinquenti di strada. Mi consenta perciò di dire, con una certa dose di cattiveria, che chi ha commesso gravi reati senza alcuna necessità, mosso dalla cupidigia, un po’ di carcere può tranquillamente farselo
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[1] In base ad un rapporto del 2016 dell’Institut de criminologie et de droit penal dell’Università di Losanna, all’1 settembre 2014 gli evasori fiscali e, più in generale, i colletti bianchi in carcere in Italia erano lo 0,6%, in Germania l’11,8%.
[2] Si vedano le parole pronunciate dal Presidente dott. Giuseppe de Carolis, riportate nell’articolo Inaugurazione Anno giudiziario. I Presidenti di Corte d’Appello: siamo al collasso, in Rainews, 28 gennaio 2017.
[3] Cass. pen., Sez. Un., 31 marzo 2016, n. 6916.
[4] P. Buffa, Prigioni. Amministrare la sofferenza, Edizioni Gruppo Abele, 2013.
[5] L. Ferrajoli, Il paradigma garantista. Filosofia e critica del diritto penale, Editoriale Scientifica, 2014.