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Fascicolo 6/2021

Estratto dal volume “Tavolo numero sette(Edizioni Spartaco, 2019), pp. 64-75, accompagnato dalla presentazione che segue, a firma dell’Autore.

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Tribunale di Firenze, 201*, esterno (flashback).

Alcuni anni fa mi trovavo nel nuovo Tribunale fiorentino, in attesa della discussione di udienza preliminare. Io ero in orario e aspettavo, perché l’orario indicato nel decreto, in un Tribunale, in qualsiasi Tribunale in qualsiasi parte del mondo, è un’indicazione di massima, un orientamento di massima, un «qualcosa che, in qualche modo, sta per qualcos’altro», come direbbero gli studiosi di semiotica.

Ascoltavo la discussione di due signore sedute vicino a me. Parlavano del malfunzionamento della giustizia eccetera, e io sentivo come si devono sempre sentire i discorsi degli sconosciuti, con pudore e con lo sguardo rivolto altrove. Erano due testimoni chiamate a raccontare al Giudice di un furto di un veicolo che era avvenuto all’interno dell’azienda per la quale lavoravano. Si stavano lamentando per come erano state trattate. Una delle due, forse la titolare, era già stata esaminata, l’altra era in attesa di essere chiamata dal pubblico ministero.

Le parole che riuscivo a cogliere erano: «Ma che senso ha quando mi chiede se il cancello era chiuso a chiave…?». “Ma ti pare modo…». «Ma io avevo già detto tutto ai Carabinieri…». «Manco l’aria condizionata funzionava in quella stanza…». «Poi chiedere a me se ricordo che abbiamo subito un furto, cos’è, una provocazione, mi vogliono mettere alla prova?», «Che poi, viva Iddio, hanno già tutte le carte, ti pare far perdere la giornata di lavoro per dire quello che già sanno, chi me la paga la giornata di lavoro, me la paga il Giudice?». «E, nonostante tutto, ho spiegato ogni cosa per filo e per segno e dobbiamo ancora aspettare qua perché no, la mia parola non va bene, devono sentire anche te, che poi vai a capire tu perché…».

Ripassavo mentalmente la breve discussione per la mia udienza preliminare, e mi dicevo quello che mi ripeto spesso prima di un’udienza preliminare: sai che verrà rinviato a Giudizio, sai che il GUP è disarmato, sai che il suo filtro è oramai una città aperta dove tutti possono entrare, sai che… sai tutto questo, «everybody knows that the dice are loaded», ma non deve fermarti perché la giustizia si manifesta solo a chi crede e il giorno in cui rinuncerai a parlare perché tanto sai cosa deciderà il GUP sarà anche il giorno in cui dovrai appendere la toga.

Un VPO incolore, anonimo, avvisò la seconda testimone che era libera di andarsene, e loro si alzarono in modo da poter esprimere tutta la loro indignazione, barbottando frasi di vittimismo mentre il VPO alzava le spalle quale manifestazione della sua incolpevolezza, e le donne si allontanarono, le stesse che fino a pochi secondi prima si lamentavano del fatto che avrebbero dovuto aspettare chissà fino a quando, si allontanarono indignate perché dopo avere atteso, la seconda testimonianza era risultata non indispensabile, e la loro indignazione lasciava una scia sul corridoio centrale del Tribunale che a me pareva di potere quasi toccare.

Avrei voluto seguirle, avrei voluto spiegare quello che era appena successo, parlare della verginità cognitiva del Giudice, del fatto che la presenza del cancello probabilmente costituiva un’aggravante, del fatto che erano state acquisiti i verbali di sommarie informazioni testimoniali e quindi non era più necessario esaminare il testimone. Avrei voluto, insomma, colmare il divario che stava tra due persone comuni e lo svolgimento del processo. Ma sono rimasto seduto, a ripassare mentalmente la mia discussione e a chiedermi se la distanza non fosse più colmabile.

Mi venne, allora, in mente l’incipit di uno dei più bei libri mai scritti sul diritto, The Best Defense di Alan Dershowitz che esordisce con queste parole: «A conspiracy of silence shrouds the American justice system. Most insiders – lawyers and judges – won’t talk. Most outsiders – law professors and journalists – don’t really know. Few of those who are outside the club ever get close enough to the day-to-day operations to the system to appreciate how it really works» («Una cospirazione di silenzio avvolge il sistema giudiziario americano. La maggior parte degli addetti ai lavori – avvocati e giudici – non parla. La maggior parte degli estranei – professori di diritto e giornalisti – non sa nulla. Pochi di coloro che sono fuori dal giro si avvicinano abbastanza alle operazioni quotidiane del sistema per comprenderne il vero funzionamento»).

Si può sostituire la parola American con Italian o Canadian, e il risultato non cambia. Quel che succede dentro i Tribunali, quel che ogni giorno migliaia di Giudici, avvocati e pubblici ministeri fanno è qualcosa che rimane estraneo e incomprensibile, quasi un mondo a parte. Di questo passo, è inevitabile che crescano la frustrazione e l’astio di chi si trova imputato o testimone e non riesce a capire le coordinate di quello che sta succedendo con la sua vita.

Mi piaceva sondare questa distanza, mi piaceva colmarla, mi piaceva scriverne. Quel che era una intuizione divenne l’embrione di un libro quando colsi la chiave: un romanzo giallo, un matrimonio, un tavolo dove siedono persone comuni e un Giudice che ha appena assolto l’unico imputato di un delitto efferato, un odio puro per il Giudice che ha osato farlo. E poi, siccome questo Giudice è strano davvero, il dialogo tra un brindisi e l’altro, il ripercorrere le prove e la deduzione, la pazienza di spiegare ai commensali quello che è un processo penale e perché è così.

E poi divenne una storia, un libro o, in altre parole, un tentativo di spiegare quello che mi pare di avere compreso.

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