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12.02.2020
Paola Emilia Cicerone

Un passo avanti nel viaggio all’interno della mente criminale?

Conversazione con il neuroscienziato Kent Kiehl

Fascicolo 2/2020

La ricerca sulle possibili basi biologiche del comportamento criminale non è una novità: la novità è che oggi i ricercatori dispongono di tecniche di neuroimaging che permettono loro di studiare la struttura e, almeno in parte, l’attività cerebrale, e di conseguenza si moltiplicano gli studi che mirano a individuare eventuali anomalie nel cervello di chi ha commesso crimini. Studi già utilizzati in tribunale, a volte per mettere in discussione la responsabilità di un imputato, ma che in prospettiva – nonostante la difficoltà di individuare una chiara relazione tra strutture anatomiche e comportamenti – potrebbero aiutare a capire come aiutare tempestivamente i soggetti inclini alla violenza. È proprio questo uno degli obiettivi dello studio[1] pubblicato la scorsa primavera sulla rivista Brain Imaging and Behaviour che per la prima volta mostra delle differenze nella struttura cerebrale di soggetti condannati per omicidio, rispetto a individui antisociali o condannati per altro tipo di crimini violenti. È certamente troppo presto per trarre conclusioni definitive, e i numeri della pur ampia ricerca sono troppo limitati per parlare di “cervello da assassini”, ma si tratta comunque di un lavoro importante.

«È il primo studio di questo tipo mai realizzato, e ha richiesto dieci anni di lavoro», ci ha spiegato il principale autore della ricerca, Kent Kiehl, un neuroscienziato che lavora all’Università del Nuovo Messico e al Mind Research Network (MRN) di Albuquerque. Proprio al MRN è stato progettato una ventina di anni fa il sistema di risonanza magnetica mobile utilizzato da Kiehl per le sue ricerche, che hanno coinvolto oltre 800 detenuti per vari reati nelle prigioni del Nuovo Messico e del Wisconsin. Dallo studio emerge che i 200 soggetti colpevoli di omicidio mostrano – rispetto ai gruppi di controllo composti da soggetti condannati per altri reati – una riduzione della materia grigia in aree cerebrali considerate determinanti per il controllo delle emozioni, le funzioni esecutive e la cognizione sociale, ossia quel tipo di attività mentale che ci guida nelle nostre interazioni sociali.

Dallo studio emerge che i 200 soggetti colpevoli di omicidio mostrano – rispetto ai gruppi di controllo composti da soggetti condannati per altri reati – una riduzione della materia grigia in aree cerebrali considerate determinanti per il controllo delle emozioni

Kiehl si interessa da anni di questi temi, e negli Stati Uniti è piuttosto noto per aver raccontato le sue ricerche in un saggio divulgativo intitolato The Psychopath Whisperer: The Science of Those Without a Conscience (L’uomo che sussurrava agli psicopatici: la scienza dei senza coscienza), Crown Press, 2014. Tra le sue ricerche, ce n’è una su adolescenti colpevoli di omicidio – venti soggetti all’interno di un gruppo di 150 detenuti nel carcere minorile del Nuovo Messico – pubblicata nel 2014[2] sulla rivista NeuroImage: Clinical che anticipa alcuni dei risultati ottenuti con l’ultimo studio: si tratta di un lavoro nato da un incontro con i responsabili della Avielle Foundation, un’associazione per la prevenzione della violenza dedicata a una delle giovanissime vittime della sparatoria alla scuola elementare di Sandy Hook, nel dicembre 2012.

Anche lo studio più recente, pur coinvolgendo un numero decisamente più ampio di soggetti ha, come ammette lo stesso Kiehl, degli inevitabili limiti: buona parte dei dati usati per selezionare i soggetti si basa su documenti ufficiali, integrati con interviste riservate ai partecipanti. Il gruppo selezionato è composto da volontari, detenuti di sesso maschile appartenenti a gruppi sociali omogenei e divisi in tre gruppi: condannati per omicidio (consumato o tentato), per crimini violenti diversi dall’omicidio, o per reati che non includono atti violenti, escludendo gli individui che presentano lesioni cerebrali o diagnosi di malattia mentale.

Viene da chiedersi per quale motivo Kiehl si sia concentrato sull’omicidio come azione, e non sulle motivazioni: avrebbe potuto essere interessante confrontare questi detenuti con soggetti che hanno ucciso in circostanze diverse, per esempio soldati o esponenti delle forze dell’ordine. «In effetti», spiega Kiehl, «in studi come questi il fatto di aver commesso un omicidio si può considerare un criterio di misura, come l’impulsività o la psicopatia: è una delle variabili che indicano un comportamento a rischio, ecco perché abbiamo scelto questo tipo di gruppo di controllo. E già dallo studio precedente emergeva che i giovani che hanno commesso omicidio sono diversi da quelli che hanno commesso atti violenti di altro genere».

In studi come questi il fatto di aver commesso un omicidio si può considerare un criterio di misura, come l’impulsività o la psicopatia: è una delle variabili che indicano un comportamento a rischio, ecco perché abbiamo scelto questo tipo di gruppo di controllo

Secondo lo psichiatra Harold Koenigsberg del Mount Sinai Medical Center, cui è stato chiesto di commentare la ricerca di Kiehl sulla rivista The Scientist[3], uno dei dati interessanti di questo studio è proprio che emergono differenze non solo tra i condannati per omicidio e gli autori di crimini non violenti, ma anche tra gli assassini e chi ha commesso atti di violenza ma senza uccidere. Il dato su cui riflettere, secondo Koeninsberg, è che la violenza omicida può nascere da dinamiche diverse: «può essere impulsiva o strumentale, generata da emozioni eccessive e reazioni incontrollate – e quindi da uno scarso funzionamento dei lobi frontali e livelli anomali di serotonina – oppure da un gesto premeditato che dovremmo associare piuttosto a una ridotta attivazione dell’amigdala». Secondo Koenigsberg, insomma, i due gruppi dovrebbero avere basi biologiche diverse, e i dati raccolti da Kiehl sarebbero potuto essere integrati da altre informazioni riguardo l’attività cerebrale e il rilascio di neurotrasmettitori. Lo stesso Kiehl, d’altronde, scrive nel paragrafo dedicato ai limiti del suo studio che sarebbe stato possibile esaminare altri elementi che potrebbero influire sul comportamento, come il livello di impulsività dei soggetti.

Secondo lo psichiatra Harold Koenigsberg […] uno dei dati interessanti di questo studio è proprio che emergono differenze non solo tra i condannati per omicidio e gli autori di crimini non violenti, ma anche tra gli assassini e chi ha commesso atti di violenza ma senza uccidere

Non c’è dubbio che lo studio mostri che nel cervello di quanti hanno commesso un omicidio c’è una differenza di densità della materia grigia in alcune aree. Inevitabilmente, non c’è modo di sapere quando questo si sia verificato, se insomma le alterazioni siano una premessa o una conseguenza del comportamento violento. «Non possiamo saperlo con certezza», spiega Kiehl, «ma in base al principio di parsimonia, sembra più plausibile che queste alterazioni fossero preesistenti, un’interpretazione che è supportata dai dati che emergono nel nostro studio sui giovani omicidi che mostrano anomalie nelle stesse regioni cerebrali». D’altronde – «anche se questo studio è di gran lunga il più grande di questo genere mai realizzato, con un gruppo di controllo di 700 persone» fa notare Kiehl – non è possibile sapere se e quanto queste anomalie siano diffuse nella popolazione in generale: «è certamente vero che ci possono essere persone con una struttura cerebrale del genere che non si sono macchiati di crimini», sottolinea il ricercatore; «d’altronde, questo tipo di alterazioni rappresenta solo un fattore di rischio. Non è pensabile che si possa prevedere un comportamento omicida in base a uno studio di questo tipo».

Anche considerando che lo studio analizza l’alterazione delle strutture cerebrali – confrontate con un modello standard – e non delle funzioni cerebrali a queste riferite. «Quello che emerge chiaramente dallo studio», osserva Kiehl «è che ci sono dei soggetti che sono più a rischio gli altri di commettere un omicidio e saperlo potrebbe essere utile in futuro per mettere in atto iniziative di prevenzione»: se i prossimi studi saranno in grado di dimostrare che questi dati hanno valore predittivo, sarebbe possibile predisporre questionari in grado di misurare il rischio di comportamento violento, o lavorare sul mancato controllo degli impulsi che sembra essere uno dei nodi cruciali di questo studio.

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«Più capiamo quali sono le variabili che portano a un comportamento omicida, più possiamo sviluppare interventi tempestivi per prevenirlo, ma anche per riabilitare i criminali», osserva Kiehl. Ed è probabile che studi di questo tipo verranno sempre più spesso utilizzati in tribunale, dalla difesa per affermare che le azioni di un imputato sono collegate ad anomalie della sua struttura cerebrale, e quindi non dipendono dalla sua volontà, oppure dall’accusa che potrebbe utilizzare questo tipo di dati come prova contro un imputato. E forse quando capiremo se esiste davvero una relazione causa/effetto tra struttura cerebrale e propensione al crimine questo metterà in discussione anche il concetto di responsabilità individuale, ma è un tema che il ricercatore preferisce non affrontare, liquidandolo con una battuta: «lo lascio agli avvocati».


 

[1] A. Sajous-Turner et al., Aberrant brain gray matter in murderers, in Brain Imaging and Behavior, 2019.

[2] L.M. Cope at al., Abnormal brain structure in youth who commit homicide, in Neuroimage: Clinical, 4, 2014, pp. 800 ss.

[3] V. N. Lanese, Secrets in the Brains of People Who Have Committed Murder, in The Scientist, 1 novembre 2019.

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