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29.05.2019
Greta Montaruli

Vicino a te

L’ordinaria immobilità di una domenica all’interno del carcere minorile.

Fascicolo 5/2019

Circa una volta alla settimana entro come volontaria in un istituto penale per minorenni (IPM), il luogo di esecuzione della pena, o di misure cautelari detentive, per coloro che, all’epoca della commissione del reato, erano minorenni.

L’età dei detenuti accolti in IPM è compresa tra i quattordici e venticinque anni. La forma dell’IPM è quella di un istituto penitenziario vero e proprio.

Ogni volta che entro lì il tempo si ferma.

È come entrare in una zona separata dal resto del mondo in cui le regole della comunicazione e delle relazioni umane sono speciali.

L’organizzazione, all’interno dell’IPM, è pensata in funzione dell’obiettivo educativo, che viene perseguito in modo differente a seconda dell’età dei ragazzi i quali, perciò, sono divisi in gruppi – più o meno omogenei –, in base alle loro necessità trattamentali.

Io vado sempre a trovare il gruppo di “orientamento”, che accoglie ragazzi giovanissimi, spesso appena arrivati, o che stanno svolgendo un programma educativo in una fase relativamente “iniziale”, ovvero che non lavorano ancora.

Quando arrivo all’ingresso della sezione, al terzo piano, mi affaccio tra le sbarre della prima porta che divide me e i ragazzi detenuti e le impugno aspettando che l’assistente mi venga ad aprire.

A volte i ragazzi vengono a vedere chi arriva e si affacciano a loro volta.

L’ultima volta era domenica.

Un giorno vuoto per loro: non ci sono attività, non ci sono le educatrici, non ci sono colloqui con i famigliari.

N. è un ragazzo afgano, venuto in Italia con il padre ed entrato da qualche settimana.

Mentre aspettavamo la guardia, N. è venuto verso di noi, ha impugnato le sbarre a sua volta e sorridendo ha detto «ragazzi, grandi che siete venuti a trovarci». L’assistente ha aperto le porte e io e il mio collega siamo entrati.

Il clima quella domenica era teso e anche triste.

I tre ragazzi della cella 1 “erano chiusi” come dicono le guardie. C’era stato un litigio tra loro e altri ragazzi della sezione, per cui la cella n. 1 era stata chiusa e loro tre non sarebbero potuti uscire in corridoio né fare l’ora d’aria in cortile.

Allora siamo andati a salutare gli altri che giravano per la sezione.

La sezione è composta da un corridoio con due aule comuni.

La prima è più ampia e lì si consumano i pasti.

La seconda è più stretta e c’è una televisione (che però funge solo da stereo perché per il resto non funziona), un biliardino e un vecchio divano sgangherato.

Negli orari in cui i ragazzi “sono aperti” girano per questi spazi, fumano sigarette, giocano a biliardino e ascoltano la musica. Quando “sono chiusi stanno in cella.

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Questo quando non ci sono in programma delle attività a cui partecipano, e quindi soprattutto nel week-end. Durante la settimana infatti vanno a scuola la mattina e partecipano alle attività che l’istituto è in grado di offrire il pomeriggio, come il laboratorio di musica.

Quel giorno i ragazzi che non avevano litigato erano abbastanza tranquilli e anzi sembravano quasi entusiasti di vedere qualcuno arrivato per stare con loro in quella giornata vuota. Questo calore era inaspettato.

Infatti le prime volte che siamo stati lì, i meno estroversi ci guardavano come alieni. Persone adulte e lontane dalle loro vite.

«Ovviamente siete qui per soldi» ci aveva detto M. la prima volta che ci ha visto, durante un pranzo.

Il concetto del volontariato per loro è difficile. La maggior parte di loro scopre lì che esiste e che cos’è. E comunque non è di facile comprensione per loro il fatto che tu voglia passare del tempo lì.

In ogni caso, le prime volte che siamo entrati in sezione, io e il mio collega, la maggior parte dei ragazzi è stata schiva. Si avvicinavano con fatica. Ci guardavano da lontano, come se fossimo estranei nella loro casa.

Domenica invece è andata diversamente.

Quella immediata dimostrazione di affetto da parte di N. era stata significativa di un clima diverso dal solito.

Non ero mai stata lì la domenica. In una precedente visita avevo chiesto quale fosse per loro il giorno più difficile della settimana e tutti mi avevano risposto che era la domenica, proprio perché non c’è niente da fare.

E il calore dimostrato a noi probabilmente è dipeso proprio da questo senso di noia, di vuoto, d’immobilità che si respirava.

C’era tensione, anche. Una tensione sospesa. Come se ci fosse una bomba pronta ad esplodere da un momento all’altro e loro fossero tutti in attesa di quel momento.

Immobilità e tensione come facce della stessa medaglia, momenti della stessa giornata.

Come se questi ragazzi lasciati con le loro sigarette in un corridoio, fossero inevitabilmente destinati a litigare.

Il concetto del volontariato per loro è difficile. La maggior parte di loro scopre lì che esiste e che cos’è. E comunque non è di facile comprensione per loro il fatto che tu voglia passare del tempo lì

N.I., un ragazzo arrivato da un paio di settimane e, nonostante la giovane età di 16 anni, già detenuto per la seconda volta, precedentemente non aveva mai parlato con me.

Aveva solo risposto a domande che gli avevo rivolto direttamente e da cui non poteva scappare, come durante un’interrogazione a scuola.

Quel giorno, invece, mi ha invitato a chiacchierare vicino alla finestra dove fumano le sigarette.

Ha tirato giù una panchina (che era in posizione verticale per non occupare spazio nell’aula comune) per farmi sedere e mi ha anche offerto una sigaretta.

Per loro è un gesto enorme perché le sigarette sono contate, costano e rappresentano uno dei loro svaghi principali.

Ovviamente ho rifiutato la sigaretta ma mi son seduta volentieri.

Io N.I., M.E. e un nuovo ragazzo abbiamo chiacchierato parecchio dei reati per cui sono entrati in IPM. Ne hanno parlato loro, senza che io chiedessi. Era una presentazione di sé.

Il nuovo ragazzo si è presentato dicendo «pensa te che io sono qua per una rapina che non ho commesso, vedi te!». Sorridendo, l’ho invitato ad approfondire.

Ad un certo punto ognuno voleva raccontare il suo reato e si parlavano sopra come i bambini che vogliono mettersi in evidenza agli occhi della maestra.

Sono adolescenti, sono piccoli, e alcuni di loro non sembrano avere la consapevolezza per cui ad ogni azione corrispondono cause e conseguenze.

Spesso sembra che si stupiscano delle seconde e che le prime non siano per loro oggetto di interesse. Sembra che alcuni di loro viaggino in base alle emozioni del momento.

Ad un certo punto ognuno voleva raccontare il suo reato e si parlavano sopra come i bambini che vogliono mettersi in evidenza agli occhi della maestra.

In quel momento con noi c’era anche M.E.

M.E. è un ragazzo cinese ma cresciuto a Milano nella zona di Loreto. Visto che è cinese tutti lo chiamano Cina. Quando si era presentato ci aveva detto di chiamarsi M.E., ma ci aveva dato il permesso di chiamarlo Cina.

Lui ad esempio mi ha raccontato che, dopo aver trascorso un periodo in carcere, ha ottenuto l’affidamento in comunità, che è una cosa positiva, in teoria meglio del carcere. Mi ha raccontato che appena è arrivato in comunità ha bevuto un caffè e poi è scappato. Morale, l’hanno riportato in carcere subito dopo.

Allora gli ho chiesto «ma perché sei scappato? Volevi tornare qui, forse non ti è piaciuta la comunità quando sei arrivato?». Stupidamente davo per scontato ci fosse una progettualità in quella fuga.

Invece lui con naturalezza massima mi aveva riposto «no, no, volevo solo scappare, ho bevuto il caffè e son scappato».

E da quello che ho sentito la maggior parte di loro fa cose di questo tipo, scappare dalla comunità in primis, ma senza un piano in mente, non per andare da un’altra parte o in un luogo migliore.

Ad un certo punto, mentre parlavo con loro, abbiamo sentito delle urla.

M., uno dei ragazzi “chiusi” nella cella 1 gridava e io ho riconosciuto subito la voce.

Ho chiesto a N.I. perché M. urlasse e lui, con molto rispetto e aria vissuta, come se stesse parlando di una cosa molto delicata, mi ha spiegato che M. ha queste reazioni perché «si faceva» prima di entrare e adesso gli danno una terapia per fronteggiare l’astinenza. Il problema è che ne vorrebbe di più.

Ho rassicurato N.I. sul fatto che M. si era confidato con me e mi aveva raccontato della tossicodipendenza.

«Eh ma del fratello lo sai?» ha continuato lui.

«No, cosa gli è successo?» ho chiesto a quel punto.

Lui tentennava prima di rispondere, come se non fosse sicuro di potermelo dire.

Poi, sempre con aria vissuta, ha iniziato a raccontare «eh, il fratello ci è rimasto sotto pesantemente».

Lo ascoltavo ma le urla di M. in sottofondo mi distraevano.

Allora ho deciso di andare da M. a vedere cos’avesse e stare un po’ con i tre ragazzi della cella 1. Infatti tra le sbarre della cella c’è spazio e loro possono parlare e vedere chi è in corridoio.

Sono andata davanti alla cella e mi sono appoggiata alle sbarre, come sempre.

Ho infilato la mano dentro per salutarli uno per uno. Poi mi sono rivolta a M.

Lui nervosamente continuava ad andare avanti e indietro e alzava la voce lamentandosi di tutto e di tutti. Si riferiva al litigio con gli altri, dicendo che «quello stronzo gliela avrebbe pagata» e cose del genere.

Non riuscivo a seguire bene il discorso.

Ascoltavo e cercavo di farlo calmare un po’, ma lui non sentiva ragioni.

Poi si è sfogato perché quella domenica era la festa della mamma e sono quattro mesi che non sente sua mamma, diceva. E si lamentava perché non gli facevano fare nemmeno una telefonata.

Poi è passato al tema della terapia: non funziona e lo fa solo arrabbiare di più.

Io stavo lì alle sbarre ad ascoltare.

Ho detto qualche parola per calmarlo, per farlo sentire ascoltato. Ma lui non sentiva ragioni, era tutto nero e la vita uno schifo.

Non l’avevo mai visto così negativo, di solito lui è espansivo ed estroverso.

La seconda volta che sono stata con loro, mi era venuto incontro e si era presentato subito dicendo che lui era scappato dalla comunità e che l’avevano portato lì.

Aveva spiegato che è tossicodipendente dalla cocaina. Questa era stata la seconda cosa detta dopo il nome.

Mi aveva colpito molto, trattandosi di un ragazzino di sedici anni.

M. a differenza di altri non è schivo. Sembra fidarsi degli altri, come se il bisogno dello scambio umano superasse la vergogna, la sfiducia, la diversità e tutto ciò che invece inibisce i ragazzini di quell’età, soprattutto in carcere. Infatti quando mi vede mi parla sempre, mi fa delle domande e mi saluta con affetto.

Ma domenica proprio era una giornata no.

Ho cercato di ricordagli che venerdì avrebbe avuto il processo, di stare calmo.

Poi l’ho salutato con affetto e così gli altri due ragazzini chiusi con lui, che durante questa conversazione erano stati seduti sul letto a guardare me e M. parlare.

Aveva spiegato che è tossicodipendente dalla cocaina. Questa era stata la seconda cosa detta dopo il nome.

Ho sentito dire una volta, da alcuni del gruppo, che uno dei due in cella con M., quello più basso, ha 21 reati nel capo di imputazione e ha soli 15 anni.

Comunque con lui non sono mai riuscita a parlare.

L’assistente è venuto a chiamare me e il mio collega dicendoci che a breve avrebbe portato i ragazzi giù all’aria e che noi avremmo potuto iniziare a scendere, per una questione logistica.

«Va bene, scendiamo».

A tutti, meno che ai ragazzi della cella 1, ho detto che ci saremmo visti in cortile.

Quel cortile è veramente triste. Tutto in cemento ed erba sintetica.

Domenica c’erano anche carte e plastica per terra. Notando la bottiglia di plastica a terra io e il mio collega ci siamo guardati con sconforto.

Per i ragazzi quello è il momento più bello della giornata: campetto da calcio, la palla e basta.

Perché nessuno raccoglie le carte e la plastica da terra?

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Appena sono scesa in cortile ho visto A., il primo ragazzo che ho conosciuto in IPM.

Non lo vedevo da un mese.

Prima era nel mio gruppo, poi non l’ho più visto e non avevo capito dalle parole dell’educatrice se fosse uscito o se fosse stato trasferito.

Domenica era seduto sul muretto davanti al campo.

Sono andata lì, gli ho dato la mano e gli ho detto «A! è un po’ che non ti vedo».

«Uei ciao, ero uscito e mi sono rivenuti a prendere ieri…» mi ha risposto con un’aria tra lo sconforto, la rassegnazione e la consapevolezza di stare dicendo una cosa interessante.

«Ma come?»

«Eh sì, ero uscito e son rientrato».

Non abbiamo approfondito.

«Allora in che gruppo sei adesso?»

«Al secondo, perché al primo non c’era posto».

«Ho capito».

Mi sono seduta vicino a lui a guardare altri ragazzi che stavano giocando.

A quel punto la guardia li ha radunati per farli risalire in sezione, visto che dovevano scendere i ragazzi della prima sezione e i due gruppi si sarebbero alternati.

Ho salutato A, gli ho dato la mano.

Ho osservato la procedura di raduno eseguita dalla guardia.

Nel carcere minorile è tutto scandito da procedure di movimento e controllo dei ragazzi.

Sono rimasta lì ad aspettare i “miei”.

Mentre aspettavo seduta sul gradino del campetto pensavo alle percezioni. Pensavo alla tristezza che mette quel campo da calcio e a come invece per loro rappresenti aria, luce, movimento, libertà.

Un momento fondamentale, soprattutto in giornate tese e vuote come quella domenica.

Mi chiedevo come possa bastare un momento di aria, in giornate così.

Come possano bastare, in quelle giornate, un corridoio, un biliardino, un pacchetto di sigarette e la presenza di qualche volontario.

Può bastare?

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