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24.10.2019
Fabio Fiorentin

Ammissibili i permessi premio per chi non ha collaborato con la giustizia, purché sia accertata l’esclusione di collegamenti con l’organizzazione mafiosa

Con un comunicato stampa la Corte costituzionale annuncia la decisione sull’“ergastolo ostativo”

Fascicolo 10/2019

La Corte costituzionale si è pronunciata, all’esito della pubblica udienza del 22 ottobre, sulle questioni di legittimità costituzionale sollevate, rispettivamente, dalla Prima Sezione penale della Corte di cassazione con ordinanza del 20 dicembre 2018, n. 59, con cui la rimettente ha posto in dubbio la legittimità costituzionale della preclusione al beneficio del permesso premio per il condannato all’ergastolo che non abbia collaborato con la giustizia, che abbia sempre mantenuto negli anni di detenzione un comportamento improntato alla correttezza comportamentale e all’adesione al trattamento rieducativo, e dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia con ordinanza del 28 maggio 2019, n. 135, che ha sollecitato lo scrutinio della medesima disposizione di matrice penitenziaria in relazione agli stessi parametri evocati dalla Cassazione, ma in un caso differente, quello dell’ergastolano condannato quale esponente apicale di un’organizzazione mafiosa.

La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ordinamento penitenziario) nella parte in cui non consente la concessione di permessi premio nei confronti dei condannati per taluno dei reati “assolutamente ostativi” indicati dalla disposizione censurata che non abbiano collaborato con la giustizia, anche nel caso in cui siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità dell’affiliazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Resta salvo che l’interessato deve avere dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo.

La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ordinamento penitenziario) nella parte in cui non consente la concessione di permessi premio nei confronti dei condannati per taluno dei reati “assolutamente ostativi” […] che non abbiano collaborato con la giustizia, anche nel caso in cui siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità dell’affiliazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata

La quaestio delibata dalla Consulta riguarda soltanto uno dei benefici penitenziari concedibili alla generalità dei condannati (il permesso premio), così che la decisione annunciata dal comunicato si pone come leading case di un prevedibilmente lungo sciame di pronunce che – applicando il medesimo principio oggi affermato – ne estenderanno la valenza agli altri benefici penitenziari e, in particolare, alle misure alternative alla detenzione. Nella prospettiva della progressione trattamentale che ispira l’ordinamento penitenziario, infatti, l’ammissione all’esperienza dei permessi premio è soltanto il primo passo verso il pieno recupero della libertà che, attuandosi con il termine dell’esecuzione della pena, si sviluppa con la graduale sperimentazione del detenuto attraverso benefici e misure via via più ampi, seguendo i progressi nel percorso rieducativo del soggetto.

La sentenza sembra avere recepito la prospettazione dei rimettenti per cui la presunzione assoluta di pericolosità sociale cristallizzata nel divieto assoluto di ammissione ai benefici penitenziari per il condannato non collaboratore si pone in contrasto con la consolidata elaborazione costituzionale per cui le presunzioni legali assolute che incidono su diritti fondamentali sono illegittime se arbitrarie, irrazionali, ovvero se non riflettano dati esperienziali generalizzati secondo l’id quod plerumque accidit (Corte cost., sent. 57/2013). Su questa premessa, la Corte costituzionale – pronunciandosi in tema di custodia cautelare in carcere – già aveva ritenuto irrazionale l’equiparazione, sotto il profilo dei presupposti applicativi della detta misura cautelare, della situazione di chi commetta un delitto al fine di agevolare una consorteria mafiosa (art. 7 d.l. 152/91) a quella di chi abbia commesso un reato che implichi necessariamente l’affiliazione al sodalizio mafioso. Con la successiva sentenza n. 48/2015, la Consulta ha censurato la disciplina delle misure cautelari personali (art. 275, comma 3, secondo periodo, c.p.p.) nella parte in cui non consente al giudice – nel caso di concorrente esterno nel delitto di cui all’art. 416-bis c.p. – di valutare eventuali elementi specifici da cui desumere che le esigenze cautelari possano essere assolte, nel caso specifico, con misure diverse dalla custodia carceraria.

La decisione annunciata dal comunicato si pone come leading case di un prevedibilmente lungo sciame di pronunce che – applicando il medesimo principio oggi affermato – ne estenderanno la valenza agli altri benefici penitenziari e, in particolare, alle misure alternative alla detenzione

Analoghe criticità sotto il profilo costituzionale affliggono la disposizione dell’art. 4-bis, o.p., che, cristallizzando un’indistinta presunzione assoluta di incompatibilità dei condannati per i delitti ivi indicati ai fini dell’accesso ai benefici penitenziari, anche con riferimento ai soggetti condannati ai sensi dell’art. 7 d.l. 152/91, non consente al giudice di sorveglianza il vaglio della singola posizione, allo scopo di verificare se, nel singolo caso, sia o meno sussistente il vincolo associativo alla base del giudizio di pericolosità soggettiva che la preclusione in esame eleva fondamento della preclusione assoluta all’accesso ai benefici penitenziari.

L’irragionevole “blocco” portato dalle preclusioni assolute finisce, inoltre, per incidere sulla finalità rieducativa della pena ponendosi in contrasto con quelle linee giurisprudenziali delle Corti di garanzia che assegnano valore preminente all’obiettivo della risocializzazione del condannato rispetto ad altri interessi od esigenze (anche di difesa sociale), così come affermato – tra le altre – dalla sentenza della Corte costituzionale n. 149/18, che – richiamando a propria volta la giurisprudenza convenzionale (sentenza Vinter c. Regno Unito del 2013) – assegna appunto un ruolo di preminenza alla funzione rieducativa della pena.

L’irragionevole “blocco” portato dalle preclusioni assolute finisce, inoltre, per incidere sulla finalità rieducativa della pena ponendosi in contrasto con quelle linee giurisprudenziali delle Corti di garanzia che assegnano valore preminente all’obiettivo della risocializzazione del condannato rispetto ad altri interessi od esigenze (anche di difesa sociale)

Il sistema censurato dalla Consulta appariva, del resto, irrazionale nel prevedere la collaborazione con la giustizia quale unica condizione possibile per l’accesso ai benefici penitenziari anche nei confronti di quei soggetti condannati ex art. 7, d.l. 152/91, in rapporto ai quali non è automatica, secondo l’id quod plerumque accidit, la sussistenza dell’affiliazione al sodalizio mafioso. Infatti, pur essendo incontestato che la collaborazione con la giustizia determini la rottura del vincolo associativo, nondimeno l’assolutezza della previsione per cui senza collaborazione si presume la persistente appartenenza organica del soggetto alla compagine mafiosa contrasta con la possibilità, nel caso concreto, di rinvenire aliunde rispetto al dato giudiziario della prestata collaborazione elementi che consentano di pervenire comunque alla medesima conclusione dell’avvenuta rescissione di tale appartenenza, rendendo pertanto irrazionale l’apodittica equiparazione tra mancata prestazione della collaborazione e persistente pericolosità del condannato.

Per effetto del dictum costituzionale, sarà ora il giudice di sorveglianza, nel caso di istanze di permesso premio, a dover vagliare i profili evidenziati dalla Corte e condurre i necessari approfondimenti istruttori al fine di verificare la sussistenza di elementi dai quali desumere la prova positiva della rescissione (o comunque la non perdurante attualità) del vincolo associativo e comunque la inesistenza del rischio che il soggetto, se ammesso al beneficio, possa riallacciare i contatti con l’organizzazione mafiosa. Si tratta di un aggravio non solo per la responsabilità della magistratura di sorveglianza, già in affanno per gli eccessivi carichi di lavoro (come ha recentemente riconosciuto la stessa Corte costituzionale nella recente sentenza n. 216/2019), ma anche per gli organi cui i giudici indirizzeranno le richieste istruttorie volte all’acquisizione di elementi relativi agli eventuali rapporti dei condannati con il sodalizio mafioso di appartenenza (essenzialmente, saranno coinvolte le DDA, ma anche le altre articolazioni inquirenti, oltre agli organi della pubblica sicurezza).

Strumenti essenziali della verifica demandata al giudice dovrebbero essere idonei “criteri individualizzanti” che prendano il posto delle presunzioni legali espunte dalla pronuncia costituzionale. Un’importante indicazione viene offerta, a tal proposito, dalla giurisprudenza costituzionale che, con la sentenza n. 257/2006, ha espressamente individuato – a titolo esemplificativo – tali parametri nella «… valutazione della “qualità” dei comportamenti, del tipo di devianza, della lontananza nel tempo fra le condanne». Ulteriori elementi “individualizzanti” potrebbero essere costituiti dalla valutazione del tempus commissi delicti, dell’evoluzione della personalità successiva al delitto, della valutazione della condotta penitenziaria; dell’adesione e la partecipazione attiva al percorso rieducativo “individualizzato” prescritto dalla legge (artt. 13 e 15, o.p.); delle condizioni soggettive del condannato (con particolare riguardo alla situazione familiare, alla sfera lavorativa e alle condizioni di salute); dell’effettuazione di un percorso di revisione critica (art. 27, d.p.r. n. 230/2000).

Per effetto del dictum costituzionale, sarà ora il giudice di sorveglianza, nel caso di istanze di permesso premio, a dover vagliare i profili evidenziati dalla Corte […]. Si tratta di un aggravio non solo per la responsabilità della magistratura di sorveglianza, già in affanno per gli eccessivi carichi di lavoro […], ma anche per gli organi cui i giudici indirizzeranno le richieste istruttorie volte all’acquisizione di elementi relativi agli eventuali rapporti dei condannati con il sodalizio mafioso di appartenenza

Alla luce del dictum costituzionale, deve riflettersi che ben si sarebbe potuto evitare il ricorso al Giudice delle leggi (e – per inciso – a quello di Strasburgo che si è pronunciato in termini analoghi a quelli della Corte costituzionale nella recente sentenza del 13 giugno di quest’anno, Viola c. Italia) qualora, con solo un poco di lungimiranza in più, il legislatore avesse accolto una delle proposte elaborate dagli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, nel cui ambito era stato affrontato anche il tema dell’ergastolo “ostativo”. Tra le proposte di riforma, vi era infatti quella elaborata dal Tavolo XVI, che ipotizzava, da una parte, il superamento del regime ostativo del “doppio binario penitenziario” e, dall’altra, rimodellava l’istituto della collaborazione con la giustizia (art. 58-ter, o.p.), trasformando il giudizio di pericolosità derivante dalla mancata collaborazione con la giustizia da presunzione assoluta di pericolosità in presunzione relativa, come tale superabile in seguito al vaglio del giudice di sorveglianza, mantenendo comunque ferma – a ulteriore garanzia delle esigenze preventive – la condizione dell’assenza dell’attualità di collegamenti dell’interessato con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva.

Se queste proposte si fossero trasformate in legge, si sarebbe riportato nell’alveo costituzionale l’istituto dell’“ergastolo ostativo” mettendo al riparo l’ordinamento penale da quelle urticanti censure con cui già la Corte di Strasburgo ed ora anche la Consulta costituzionale hanno stigmatizzato il “fine pena mai”.

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