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Fascicolo 10/2019

Pubblichiamo qui, per gentile concessione editoriale, il presente contributo tratto dal volume Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti, Atti del Seminario – Ferrara, 27 settembre 2019, a cura di Giuditta Brunelli, Andrea Pugiotto e Paolo Veronesi, pubblicato in Forum di Quaderni Costituzionali – Rassegna, fasc. n. 10, 2019, pp. 107 ss.

Il contributo riproduce il contenuto della relazione tenuta dall’Autore in occasione del Seminario sopracitato, tenutosi il 27 settembre u.s. presso l’Università degli Studi di Ferrara.

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Come soldati alla vigilia di una importante battaglia, schiere di giuristi affilano le armi (per fortuna solo dialettiche) con cui affrontare lo scontro imminente. Dormiranno profondamente, fiduciosi nella bontà della propria causa, come si dice abbia fatto il principe di Condé la notte precedente la battaglia di Rocroi per lui vittoriosa? O veglieranno, piuttosto, nel timore che tutto il loro pur generoso impegno possa non risultare, alla fine, sufficiente per indurre i giudici della Consulta a quell’ultimo, coraggioso passo che ancora resta da compiere per trarre la pena dell’ergastolo nella sua forma ostativa da quel buco nero in cui è stato sospinto da un legislatore dimentico dei pilastri costituzionali e da una giurisprudenza spesso immobile nel richiamare risalenti precedenti, salmodiati come antichi mantra? E la “buona battaglia” che l’evolversi della cultura giuridica impone per il recupero di una dimensione della pena coerente con la profonda umanità di quel principio costituzionale che vuole “le pene” – tutte le pene – orientate al recupero sociale del condannato sarà vittoriosa o prevarrà la Realpolitik?

In poche altre occasioni la mission dell’amicus curiae è stato più chiaro di oggi: si tratta di far giungere ai giudici costituzionali, attraverso i buoni argomenti del diritto, quella urgenza, così profondamente avvertita tra gli studiosi, della “necessità” del recupero a Costituzione dell’ergastolo (non più) ostativo così completando, con un ultimo passaggio – certo il più difficile, proprio perché decisivo – un cammino intrapreso ormai da molto tempo.

La “buona battaglia” che l’evolversi della cultura giuridica impone per il recupero di una dimensione della pena coerente con la profonda umanità di quel principio costituzionale che vuole “le pene” – tutte le pene – orientate al recupero sociale del condannato sarà vittoriosa o prevarrà la Realpolitik?

E allora, premessi i profili tecnico-giuridici che altri, ben più autorevolmente, hanno in numerose sedi già approfonditamente illustrato, ponendo in evidenza l’irriducibile contrarietà dell’attuale regime dell’ergastolo “ostativo” con i parametri costituzionali, per la sua intrinseca irrazionalità e per l’insanabile contrasto con il principio di proporzionalità e con quello della rieducazione del condannato attraverso la pena, l’attenzione sarà qui focalizzata su alcuni aspetti forse satellitari a quelli ma che necessariamente accompagneranno lo scrutinio della Consulta e sui quali appare, pertanto, opportuna una sottolineatura.

Una prima considerazione vuole contribuire a sgomberare il campo da uno dei più insidiosi fraintendimenti che rischiano di offuscare la nitidezza della quaestio sollevata dai rimettenti: ciò su cui la Consulta è chiamata a deliberare non è l’abolizione per via giudiziaria dell’ergastolo e non siamo, dunque, di fronte a una sorta di drammatica ordalia destinata a ripercuotersi sul sistema delle pene nel suo complesso, così come lo conosciamo, o sulla natura dell’ergastolo quale unica pena che nasce perpetua. Non si tratta, cioè, di sostenere una battaglia abrogazionista dell’ergastolo, la cui valenza anche (e, nel nostro ordinamento, ormai essenzialmente) simbolica costituisce, nell’attuale momento storico, un ostacolo “psicologico” forse non ancora superabile; si tratta, invece, più semplicemente, di recuperare a costituzionalità quella tipologia di pena, attraendola entro quel perimetro che le Corti di garanzia – in un dialogo sempre più intenso e fecondo – hanno nel tempo tracciato come una sorta di limes posto a difesa della civiltà giuridica e dei diritti fondamentali di tutti i consociati e dunque, anche di coloro che, avendo commessi gravissimi delitti, si trovano in espiazione di pena, financo della pena massima che il nostro ordinamento conosce.

Da questo angolo visuale, con una sfumatura paradossale si potrebbe persino affermare che l’auspicabile “messa a regime costituzionale” dell’ergastolo nella sua variante “ostativa” possa indirettamente corroborare la sopravvivenza della versione “ordinaria”, nella misura in cui quest’ultima – attraverso la somministrazione di alcuni benefici penitenziari e la concessione della liberazione condizionale – garantisce al condannato quel “diritto alla speranza” a che, verificatisi i presupposti normativamente stabiliti e non essendo più sussistenti valide ragioni penologiche per procrastinare l’accesso alle misure extramurarie o alla definitiva liberazione, si schiuda una concreta prospettiva di rilascio in seguito ad un riesame da parte dell’autorità pubblica.

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Il recupero a Costituzione dell’ergastolo “ostativo” è, quindi, operazione non solo doverosa sotto il profilo dei principi costituzionali e convenzionali, ma è anche un intervento che, lungi da svuotare di significato quella grave sanzione, ne lascia intoccato il significato simbolico e ne rafforza, altresì, la legittimità di pena conforme alla cornice costituzionale e convenzionale. Il condannato all’ergastolo che abbia tenuto un comportamento tale da dimostrare un sicuro ravvedimento e venga ammesso dapprima all’esperienza dei permessi premio, quindi alla semilibertà e, infine, alla liberazione condizionale dopo aver espiato determinate soglie di pena (art. 176 c.p.), partecipa infatti alla logica di progressione trattamentale non dissimile da quella che governa l’esecuzione delle pene temporanee e restituisce l’ergastolo al contesto costituzionale, quale tipologia di pena de iure e de facto comprimibile.

Un secondo profilo essenziale a disinnescare le obiezioni ispirate a mal concepite (e peggio espresse) istanze di difesa sociale riguarda il fatto che l’eventuale tramonto dell’ergastolo nella sua forma ostativa non si tradurrà in un’automatica sorta di “condono” per i condannati che vi sono sottoposti, la cui liberazione o anche il solo accesso alle più limitate forme di benefici penitenziari non è questione né dell’oggi né, probabilmente, dell’indomani del pronunciamento dei giudici costituzionali. Come ha riconosciuto la Corte di Strasburgo, la cui giurisprudenza si è da tempo impegnata su alcuni dei temi fondamentali che anche la Consulta dovrà a brevissimo affrontare, rimuovere una preclusione assoluta alla concessione dei benefici penitenziari non significa affatto che questi ultimi vengano tout court concessi, con una sorta di automatismo. Il sistema penitenziario configurato dalla legge di ordinamento penitenziario si fonda, infatti, sul già evocato principio della progressione trattamentale, sulla partecipazione attiva al programma individuale ed alle offerte rieducative proposte dall’équipe dell’istituto penitenziario. È, inoltre, fondamentale il risultato dell’osservazione sulla personalità del condannato che, attraverso un periodo di tempo anche protratto, attesti gli eventuali effetti positivi del trattamento così da avviare l’esecuzione extra moenia, con l’ammissione del detenuto a benefici progressivamente più ampi (dal lavoro all’esterno, ai permessi premio, alla semilibertà e alle misure alternative alla detenzione fino alla concessione della liberazione condizionale). Si tratta di un graduale e controllato percorso di reinserimento della società civile esterna che non solo non ha natura “obbligata”, nel senso che la persona ristretta non matura alcun “diritto” o “aspettativa legittima” all’ammissione ai benefici penitenziari in assenza di un accertamento valutativo del giudice di sorveglianza sui progressi trattamentali e di un vaglio di compatibilità dei benefici esterni con la residua pericolosità sociale del condannato; ma integra una progressione costantemente sottoposta al controllo del giudice, dei servizi sociali e delle forze dell’ordine tale che, in caso di comportamenti del soggetto non conformi alla legge o alle prescrizioni imposte dal giudice, può invertire senso e restituire l’interessato all’espiazione della pena nel contesto detentivo.

L’eventuale tramonto dell’ergastolo nella sua forma ostativa non si tradurrà in un’automatica sorta di “condono” per i condannati che vi sono sottoposti, la cui liberazione o anche il solo accesso alle più limitate forme di benefici penitenziari non è questione né dell’oggi né, probabilmente, dell’indomani del pronunciamento dei giudici costituzionali

Un sistema così concepito dovrebbe tranquillizzare anche i più irriducibili fautori delle esigenze di difesa sociale, i quali dovrebbero, del resto, trovare motivi di rassicurazione considerando tre dati, che paiono eloquenti: la quota nient’affatto “allarmante” di detenuti ammessi ai benefici penitenziari esterni (inferiore al 50% dei ristretti); il ridottissimo numero di detenuti che, ammessi alle misure extramurarie, commettono nuovi delitti o, evadendo, si sottraggono all’esecuzione; per converso, l’altissima percentuale di persone che, ammesse ad un percorso di reinserimento sociale nel corso della detenzione, non incorrono successivamente in fenomeni di recidiva nel reato (percentuale che, come è noto, sostanzialmente si azzera in presenza di un’attività di lavoro stabile e di un effettivo reinserimento sociale).

Un meccanismo di accesso alle misure esterne al carcere connotato da una attenta e finanche severa dosimetria dei benefici penitenziari da parte della magistratura di sorveglianza appare, quindi, in grado di “assorbire” gli effetti di una pronuncia del giudice costituzionale che consenta il dispiegarsi – anche per gli ergastolani “ostativi” – di una valutazione restituita alla competenza tecnica e alla responsabilità della magistratura di sorveglianza, posto che quest’ultima sarà comunque tenuta a una rigorosa disamina dei profili di pericolosità sociale del condannato sulla cui base articolare un eventuale e graduale accesso a forme di esecuzione esterna al carcere senza alcun automatico e incontrollato “liberi tutti”. Il sistema dell’esecuzione penale e il governo che dell’ordinamento penitenziario viene fatto dai giudici di sorveglianza merita, dunque, la piena fiducia della Consulta.

Un terzo aspetto che dovrebbe essere tenuto in considerazione riguarda la constatazione che, nell’ambito di un regime penitenziario “ostativo”, assolutamente impermeabile alle aperture esterne, non vi sono spazi per esperire neppure un tentativo di recupero della persona detenuta: da una parte, il soggetto resta inchiodato al giorno in cui ha commesso il reato, con lo stigma di irrecuperabilità impresso dal titolo del reato stesso, dall’altro, il sistema penitenziario non può realizzare il tentativo di recuperare il soggetto attraverso il trattamento rieducativo nei cui confronti, del resto, l’interessato non avrebbe alcun interesse o stimolo. A sua volta, al giudice di sorveglianza non sarà consentita alcuna disamina sul percorso penitenziario realizzato dal soggetto, sugli eventuali progressi compiuti e in relazione alla pericolosità sociale eventualmente ancora presente. Si realizza, in altri termini, un corto circuito paralizzante di ogni possibilità di rendere la persona condannata per un delitto “ostativo” un elemento recuperabile e perfino utile alla società civile. Per converso, la via d’uscita rappresentata dalla collaborazione con la giustizia non assicura di per sé che il “collaborante” sia persona non più pericolosa, non richiedendosi in capo a quel soggetto alcuna resipiscenza o ripudio dell’ideologia criminale, ma solo che la collaborazione sia “utile” alle indagini, ben potendo, la medesima, essere prestata per scopi utilitaristici o, peggio, per scopi di vendetta personale o di odio nei confronti di altri soggetti.

Nell’ambito di un regime penitenziario “ostativo”, assolutamente impermeabile alle aperture esterne, non vi sono spazi per esperire neppure un tentativo di recupero della persona detenuta: da una parte, il soggetto resta inchiodato al giorno in cui ha commesso il reato, con lo stigma di irrecuperabilità impresso dal titolo del reato stesso, dall’altro, il sistema penitenziario non può realizzare il tentativo di recuperare il soggetto attraverso il trattamento rieducativo nei cui confronti, del resto, l’interessato non avrebbe alcun interesse o stimolo

Il quarto profilo da valutare riguarda la possibile ricaduta dell’eventuale dictum costituzionale favorevole alle prospettazioni del rimettente sull’istituto della collaborazione con la giustizia disciplinato dall’art. 58-ter della l. n. 354/75, indissolubilmente collegato all’ergastolo “ostativo”. È stato rimarcato dalla pressoché unanime elaborazione dottrinale che il combinato disposto degli artt. 4-bis e 58-ter integra un costrutto inserito nella dinamica dell’esecuzione penitenziaria a fini esclusivamente preventivi e di difesa sociale, oltre a perseguire la dichiarata finalità di incentivare, attraverso la collaborazione con la giustizia, la lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso.

Ci si può chiedere se l’eventuale trasformazione della attuale presunzione assoluta di persistenza dei collegamenti del condannato con la criminalità organizzata in una presunzione soltanto relativa affidata al prudente vaglio del giudice di sorveglianza, pur potendo costituire un punto di caduta accettabile nella ponderazione degli equilibri valoriali presidiati dalla Costituzione, incida però in termini eccessivamente pregiudizievoli sull’istituto della collaborazione con la giustizia delineato nel già evocato art. 58-ter ord. penit. e sulle esigenze ad esso sottese. Occorre precisare che, anche nel caso dell’eventuale superamento dell’attuale regime dell’ergastolo “ostativo” per effetto dell’imminente intervento della Corte costituzionale, resterebbe in vigore la disciplina premiale imperniata sull’art. 16-nonies del d.l. 8/1991 che incentiva la collaborazione con la giustizia (sia pure in forme non esattamente sovrapponibili a quelle disciplinate nell’art. 58-ter ord. penit.) lasciando, quindi, sopravvivere il profilo marcatamente premiale di tale speciale disposizione, che istituisce una vera e propria “corsia preferenziale” per i condannati collaboratori di giustizia nell’applicazione di taluni importanti benefici premiali a prescindere dalle condizioni ordinarie previste per i condannati per delitti “comuni”. Parimenti intoccata dovrebbe permanere la rimozione dei limiti di pena del regime ostativo che la collaborazione con la giustizia di cui all’art. 58-ter ord. penit. assicura a chi collabora positivamente con la giustizia. Verrebbe effettivamente meno, invece, il profilo penalizzante integrato dalla preclusione assoluta alla concessione dei benefici in assenza di una collaborazione effettiva. In definitiva, la perdita di attrattiva della collaborazione sarebbe limitata – per utilizzare impropriamente una terminologia civilistica – al venir meno della prospettiva de damno vitando che induce l’interessato a collaborare, ma non a quella de lucro captando. Detto questo, occorre altresì ribadire che, anche in una prospettiva sensibile alle esigenze di tutela della collettività sociale, la rimozione dei limiti di pena non equivale certamente alla ammissione tout court del soggetto alle misure esterne, la cui concessione resterebbe comunque subordinata allo scrutinio del giudice di sorveglianza, chiamato a valutare anche le ragioni della mancata collaborazione con la giustizia e le eventuali motivazioni che – nel singolo caso – la giustificano e consentono, pertanto, di superare la presunzione di persistenza dei collegamenti del soggetto con il sodalizio di appartenenza.

Le considerazioni che si sono esposte sembrano univocamente dipingere un quadro non drammatico – sotto il profilo delle esigenze di difesa sociale – dell’eventuale adesione della Corte costituzionale alla linea tracciata dalla giurisprudenza di Strasburgo con la recente sentenza Viola c. Italia che, del resto, la Consulta aveva già per alcuni aspetti abbracciato con la pronuncia n. 149/2018.

E tuttavia, un buon motivo per non abbandonarsi al sonno che accompagnò il Gran Condé la notte prima di Rocroi è dato dalla recente sentenza n. 188/2019, con cui il Giudice delle leggi ha impresso il sigillo della legittimità all’opzione legislativa volta ad implementare il “catalogo” dei reati ostativi inseriti nell’art. 4-bis ord. penit. prevedendo un più severo trattamento sanzionatorio per particolari delitti a motivo dell’allarme sociale da essi suscitato. In questa prospettiva, l’assetto dell’attuale art. 4-bis, comma 1, ord. penit., imperniato sul “doppio binario penitenziario” risulta – ad avviso del giudice costituzionale – compatibile con la Carta fondamentale laddove risponda alla scelta del legislatore di considerare un determinato reato di particolare allarme sociale, ricollegandovi, in forza di una scelta discrezionale, un trattamento più rigoroso in fase di esecuzione.

Non si può, infatti, trascurare l’impatto che l’arresto n. 188/2019 potrebbe avere in tutti i giudizi di costituzionalità che riguarderanno il “doppio binario penitenziario”.

Quel legittimo esercizio della discrezionalità legislativa, nel cui ambito trova spazio l’apprezzamento della gravità connessa al titolo di reato per il quale vi è stata condanna, dell’allarme sociale che ne consegue e dell’oggettiva pericolosità del comportamento descritto dalla fattispecie astratta potrebbe costituire, infatti, un fertile terreno di coltura per altre decisioni che, assumendo non arbitrarie le scelte legislative sottese al sistema di presunzioni legali di pericolosità degli autori di determinati reati, facciano pendere la bilancia dalla parte delle esigenze di difesa sociale con sacrificio delle istanze rieducative.

Tuttavia, un buon motivo per non abbandonarsi al sonno che accompagnò il Gran Condé la notte prima di Rocroi è dato dalla recente sentenza n. 188/2019, con cui il Giudice delle leggi ha impresso il sigillo della legittimità all’opzione legislativa volta ad implementare il “catalogo” dei reati ostativi inseriti nell’art. 4-bis ord. penit. prevedendo un più severo trattamento sanzionatorio per particolari delitti a motivo dell’allarme sociale da essi suscitato […].Quel legittimo esercizio della discrezionalità legislativa […] potrebbe costituire, infatti, un fertile terreno di coltura per altre decisioni che […] facciano pendere la bilancia dalla parte delle esigenze di difesa sociale con sacrificio delle istanze rieducative

Le affermazioni della Consulta appaiono, in questa prospettiva, molto distanti da quelle utilizzate nella sentenza n. 149/2018 e si pongono a monito per quanti ritengano ottimisticamente in qualche modo “scontato” l’esito del pronunciamento del Giudice delle leggi.

L’ergastolo “ostativo” potrebbe, insomma, avere trovato un importante assist alla sua sopravvivenza nella legittimazione conferita dalla pronuncia n. 188/2019 al soddisfacimento delle istanze di prevenzione generale a fini di deterrenza, perseguito dal legislatore con l’implementazione del “doppio binario penitenziario” a detrimento della connotazione rieducativa della pena, in nome dell’allarme sociale suscitato nell’opinione pubblica da taluni fenomeni criminali.

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