13.01.2021
Massimo Cacciari - Susanna Arcieri - Fabio Basile - Raffaele Bianchetti - Paola Emilia Cicerone

Alla radice dell’imputabilità e della colpevolezza penali. Conversazione con Massimo Cacciari – pt. 2

Libertà, giustizia e inferno dantesco del diritto penale. Filosofia e diritto penale tra Dike e Nomos

Al cuore (o al cervello) dell’imputabilità e della colpevolezza, tra scienza, filosofia e diritto penale. Si può davvero ancora sostenere che l’uomo è libero? La coscienza è l’iceberg dell’inconscio che il diritto penale non può (o non vuol) vedere

Guarda il video del secondo capitolo della conversazione con Massimo Cacciari, effettuata il 16 novembre 2020.

Il video del primo capitolo è disponibile a questo link

Ascoltando le Sue riflessioni, ci torna in mente un libro di Massimo Nobili, che ha definito il diritto penale una «immoralità necessaria»[1]. Lei ha detto che il diritto penale puzza d’inferno; Nobili aggiunge che il diritto penale, per quanto immorale, è però necessario, come una sorta di male inevitabile. È d’accordo? O al contrario sarebbe possibile abbandonare il diritto penale in favore di un paradigma diverso, basato su diversi valori, ad esempio sul perdono?

Qui il discorso cambia di dimensione. Io credo che, da tutto quanto abbiamo osservato finora[2], discende che il diritto penale e le sue norme dovrebbero limitare il più possibile la libertà delle persone. Per ragioni logiche: se il diritto penale si basa sul presupposto, di per sé indimostrabile (è molto arduo, infatti, dimostrarlo scientificamente), dell’esistenza del libero arbitrio, allora il diritto penale dovrebbe orientarsi sempre più verso forme che non escludono la libertà e che anzi ne riducono al minimo la limitazione. È logico.

Al contrario, è del tutto illogico ricorrere alla pena sul presupposto della convinzione che il libero arbitrio esista. In altre parole: se io presuppongo che siamo liberi, non punisco il prossimo chiudendolo in galera. Semmai ci parlo, e ci parlo ancora, e ancora, e lo rieduco, proprio perché lo ritengo libero. Se lo chiudo in galera è perché, come Dante, penso che non sia libero.

Se il diritto penale si basa sul presupposto, di per sé indimostrabile […]  dell’esistenza del libero arbitrio […], non punisco il prossimo chiudendolo in galera […]. Se lo chiudo in galera è perché, come Dante, penso che non sia libero

Quindi, se ho capito bene, la Sua proposta condurrebbe, invece che a limitare la libertà, a promuovere il dialogo, proprio sul presupposto di questa libertà. Ma non ci siamo mai riusciti nella storia dell’umanità.

Mai. Ma la storia dell’umanità è un inferno.

 

Nel testo che ha scritto con Natalino Irti c’è un passaggio sul quale Le chiediamo un breve commento. Si legge: «Dike, la Giustizia, figlia degli Dei, sarà forse costretta, alla fine del suo destino, a coincidere con Nomos, il diritto posto dalla volontà umana uscita da una guerra vittoriosa? La Giustizia apparirebbe allora come un fatto, indisgiungibile dal fatto del potere e delle sue leggi»[3].

Qual è il rapporto tra Dike e Nomos? E Nomos, secondo Lei, può intendersi come una mera espressione di volontà di esercitare il potere?

Nel saggio spiego, appunto, che se Nomos si riduce a essere mera espressione del potere, allora si tratta di un potere che non avrà mai alcuna auctoritas. Questo è poco ma sicuro. Ecco allora il perché del richiamo a Dike: il riferimento alla giustizia emerge, cioè, come un’esigenza alla base dell’esercizio del potere.

Irti ritiene che ogni richiamo alla giustizia sia il richiamo a qualcosa di trascendente al diritto positivo. A mio avviso non è così. È infatti nell’ambito stesso del Nomos che emerge l’esigenza di una sua giustificazione; è qualcosa di immanente alla sua posizione. Altrimenti il Nomos non è altro che un mero fatto; non avrà alcuna durata, stabilità, sulla sua base non sarà mai possibile costituire uno Stato, come direbbe Machiavelli. Machiavelli, ma anche Spinoza, ritenevano che ci fosse bisogno di una dimensione religiosa per rendere stabile il Nomos. Ma anche senza questa dimensione, è evidente che il suo giustificarsi sia una posizione immanente del Nomos.

La storia dell’umanità è un inferno

Lo sapete meglio di me: nel mondo del secondo dopoguerra, nasce il diritto costituzionale. Che cos’è il diritto costituzionale, se non l’esigenza del Nomos di giustificarsi, rimandando ad una dimensione che non trascende dal Nomos stesso, ma che deve essere immanente in ogni sua espressione?

Il diritto penale deve giustificare il fatto di comminare una pena, deve spiegare perché lo fa. Non può limitarsi a spiegare perché porta a chiudere le persone in galera. Deve giustificare il fatto di farlo.

Si potrà invocare, ad esempio, l’esigenza di garantire la sicurezza, ma anche questo è solo un fatto, che deve essere dimostrato, fattualmente. Ciò che il diritto penale fornisce non sono mai giustificazioni, ma sempre fatti. La giustificazione può nascere solo dai principi di cui parlavamo prima.

Il diritto penale deve giustificare il fatto di comminare una pena, deve spiegare perché lo fa. Non può limitarsi a spiegare perché porta a chiudere le persone in galera. Deve giustificare il fatto di farlo […]. Ciò che il diritto penale fornisce non sono mai giustificazioni, ma sempre fatti

Come dicevamo poco fa, questi sono problemi che attraversano tutta la storia dell’umanità. Secondo Lei, la scienza moderna può (o potrà) dare un contributo nuovo alla filosofia nell’affrontare queste questioni?

Torniamo al discorso di prima. Al fatto cioè che la nostra consapevolezza, la nostra coscienza, la nostra libertà o sentimento di libertà sono del tutto relativi. Non in un senso banalmente relativistico, quanto piuttosto nel senso che tutte queste dimensioni devono essere messe in relazione a qualcos’altro. Pros ti, direbbe Aristotele[4].

Ciò riguarda ogni nostra azione così come ogni nostra parola: quando noi parliamo, siamo altrettanto parlati; ogni parola, la sintassi, le abbiamo ereditate. Guai a quel giudice e a quel legislatore che non siano coscienti di ciò.

 

Prima abbiamo parlato della coscienza e del suo substrato biologico. Sappiamo che questo substrato viene spesso imitato, nel tentativo di riprodurlo, tramite la tecnologia. Secondo Lei, possiamo immaginare, nel prossimo futuro, un’entità artificiale dotata dello stesso substrato biologico del cervello umano e quindi capace anch’essa di fare quel “salto” e acquisire la coscienza (così da poter divenire destinataria di precetti e punizioni)?

Questa è una delle questioni di frontiera che voi giuristi dovrete affrontare. Sicuramente la cosiddetta intelligenza artificiale dominerà nelle nostre vite nei prossimi anni, e questo darà origine a nuovi problemi giuridici. Ad esempio, bisognerà interrogarsi sull’imputabilità di alcuni tipi di macchine.

L’intelligenza artificiale sarà in grado di modificarsi per adeguarsi all’ambiente? Il nostro cervello lo fa; si tratta di un passaggio essenziale dell’evoluzione, che per l’essere umano è anche un’evoluzione culturale.

Le macchine saranno in grado di interagire con il contesto che le circonda? Saranno capaci di rispondere a domande imprevedibili? Noi lo siamo. A mio parere, è possibile che un giorno sarà così. Certo, occorrerà innanzitutto avere una mappa perfetta dei miliardi di interconnessioni e sinapsi che compongono il nostro cervello e, poi, capire come fare a riprodurle all’interno di una macchina.

Ma la mia domanda di fondo, che pongo spesso agli scienziati, è: che cosa ce ne faremmo di tutto questo? Voglio dire: sappiamo da millenni come si crea l’uomo – è relativamente semplice e a volte anche piacevole – e sappiamo anche come creare le macchine, lo facciamo da sempre e continuiamo a crearne di nuove perché ci servono. Ma non abbiamo bisogno che la tecnologia ci aiuti a creare altri uomini: non abbiamo bisogno di uomini, ci servono schiavi. Ci servono quindi macchine che funzionino nel modo che noi decidiamo, che ci obbediscano e servano alla funzione che noi abbiamo stabilito. È evidente.

La cosiddetta intelligenza artificiale dominerà nelle nostre vite nei prossimi anni, e questo darà origine a nuovi problemi giuridici. Ad esempio, bisognerà interrogarsi sull’imputabilità di alcuni tipi di macchine […]. Ma la mia domanda di fondo, che pongo spesso agli scienziati, è: che cosa ce ne faremmo di tutto questo? […] Non abbiamo bisogno che la tecnologia ci aiuti a creare altri uomini: non abbiamo bisogno di uomini, ci servono schiavi

Se vediamo le cose in questo modo, allora il problema diventa semplice, anche a livello giuridico: il responsabile della condotta della macchina sarà sempre e solo il suo padrone. Se invece creo un uomo, allora sarà responsabile lui, in quanto uomo. Tuttavia, l’idea di poter creare un uomo in laboratorio è un sogno di una ingenuità assurda, che rimane relegato nel mondo della fantascienza e della letteratura.

 

Sempre con riferimento alla coscienza, abbiamo detto che tutto ciò che facciamo, diciamo o pensiamo a livello conscio è solo la punta di un immenso iceberg che resta per la maggior parte inconscio e inconoscibile agli altri. Come si concilia tutto questo con il paradigma giuridico della colpa? È cioè possibile (e sensato) parlare di “colpe” se non conosciamo quali sono le vere ragioni del nostro agire?

Sì che ha senso, è evidente.

Io non ho detto che l’inconscio travolge il conscio. Certo, può capitare: è ciò che accade quando gli esperti di scienze del cervello accertano che un individuo è effettivamente e completamente incapace d’intendere e di volere. Ciò che sostengo è che, dal momento che esiste l’inconscio, noi siamo estremamente difficili da decifrare, e questa circostanza va ricordata sempre.

Non è di per sé irrazionale, a mio avviso, dare un giudizio sull’atto: è irrazionale giudicare un atto presupponendo che esista solo la coscienza.

Se guardiamo al diritto penale, è chiaro che il centro di tutto – e il dramma vero – è il momento del processo: è infatti sul processo che si basano la nostra civiltà e il nostro stesso atto di porci delle domande, sulla natura dell’essere umano e del mondo in cui viviamo. Pensiamo alla tragedia greca, ai dialoghi platonici; lo stesso Kant usava la metafora del tribunale e del processo per parlare dell’osservazione dei fenomeni.

Quella del processo è dunque la grande metafora della nostra civiltà. In questo complesso e lunghissimo dibattimento, tutto si svolge come se la nostra anima avesse un egemone, la parte noetica, razionale, depositaria del nostro essere libero. È inevitabile che sia così, altrimenti non potremmo giudicare nulla.

Ma c’è modo e modo di giudicare. Occorre giudicare con modestia, senza mai perdere il senso della misura. Filosofia e diritto devono essere modesti.

Quella del processo è […] la grande metafora della nostra civiltà. In questo complesso e lunghissimo dibattimento, tutto si svolge come se la nostra anima avesse un egemone, la parte noetica, razionale, depositaria del nostro essere libero. È inevitabile che sia così, altrimenti non potremmo giudicare nulla

Quanto, secondo Lei, la dottrina cristiana ha influenzato il discorso sulla responsabilità e sulla colpa nella storia dell’uomo?

Si tratta di un tema vastissimo. Prima citavo l’inferno dantesco: lì vi è l’idea di una giustizia fortissima, la stessa che permea tutta la tradizione cristiana e la cui architrave è la giustizia divina.

Prendiamo ad esempio i grandi affreschi di Lorenzetti, Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo a Siena: la scena è totalmente laica, e tuttavia il diritto – distributivo, commutativo, penale, amministrativo – è dominato dalla giustizia divina. Anche l’immagine del potere politico ha accanto la raffigurazione delle virtù cardinali e, sopra, delle virtù teologiche.

Il giudice, colui che dice lo ius, deve sempre tenerlo presente nell’emettere le sue sentenze. Dante stesso è un giudice, che però non giudica di per sé, o sulla base del diritto di uno Stato: giudica profeticamente, a nome di una giustizia divina.

Nel corso della storia, tutti questi potenti nessi sono crollati. Come disse Leopardi, «Iddio è distrutto»[5]. Cosa vuol dire, qui, “Iddio”? Iddio indica proprio queste relazioni potenti, tra immanenza e trascendenza, tra il Nomos e la Dike.

Però nel cristianesimo, questo è importantissimo, subentra un’altra idea: accanto, cioè, al concetto fondamentale di una giustizia “matematica”, perfetta nel risarcire la colpa – un concetto che non potremo mai cancellare dalla nostra mente, perché come sappiamo il nostro cervello è anche cultura – compare infatti l’idea di una giustizia che è sinonimo di amore e di perdono.

Entrambe queste idee ce le tiriamo dietro continuamente, concretamente, ossia nella stessa prassi del diritto. La giustizia divina di Dante è vinta dall’amore. Dio è vinto dall’amore. C’è una donna, Maria, nel cuore di Dio. Da questo origina, di conseguenza, la nozione di perdono: la colpa viene perdonata. Ed è straordinario come questa idea, assente nel classico, pervada ancora oggi la nostra cultura.

Nel cristianesimo […] accanto al concetto fondamentale di una giustizia “matematica”, perfetta nel risarcire la colpa […], compare […] l’idea di una giustizia che è sinonimo di amore e di perdono […]. Entrambe queste idee ce le tiriamo dietro continuamente, concretamente, ossia nella stessa prassi del diritto

Tanto che anche il più ateo tra i giudici ha in qualche modo a che fare con queste idee: anche se inconsciamente, esse sono ben radicate nella sua testa, nel suo cervello, e deve farci i conti continuamente.

 

Quali sono oggi secondo Lei, se ce ne sono, i possibili campi e le ricerche comuni che possono interessare la filosofia e la scienza penale?

Credo che il rapporto della filosofia con la scienza dovrebbe basarsi su quanto detto all’inizio: sull’importanza, cioè, di conoscere il nostro corpo. Anche chi si occupa di diritto dovrebbe saperlo. È un vero e proprio dovere etico.

E conoscere il nostro corpo significa conoscere le basi biologiche della nostra coscienza. Sono convinto che sarebbe molto utile se in tutte le facoltà, di ogni ordine e grado e di ogni materia, ci fosse un piccolo insegnamento che ci permetta di arrivare a conoscere il nostro corpo.

Sono convinto che sarebbe molto utile se in tutte le facoltà, di ogni ordine e grado e di ogni materia, ci fosse un piccolo insegnamento che ci permetta di arrivare a conoscere il nostro corpo

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[1] M. Nobili, L’immoralità necessaria. Citazioni e percorsi nei mondi della giustizia, il Mulino, 2009.

[2] Si veda la prima parte della conversazione, sul tema La coscienza umana tra scienze biologiche e filosofia, in questa rivista, 16 dicembre 2020.

[3] Dalla quarta di copertina di M. Cacciari, N. Irti, Elogio del diritto. Con un saggio di Werner Jaeger, La nave di Teseo, 2019.

[4] Cfr. Aristotele, Le categorie, introduzione, traduzione e note di M. Zanatta, Rizzoli, 1989 (Cat. 7).

[5] G. Leopardi, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Volume I, a cura di G. Carducci, Successori Le Monnier, 1898, p. 101.

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Un incontro di saperi sull’uomo e sulla società
per far emergere l’inatteso e il non detto nel diritto penale

 

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