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23.04.2019
Francesca Tomasello

Scienza e Diritto nel Regno Unito – pt. 2

Il progetto “Brain Waves”: Modulo 4, “Neuroscienza e Diritto”

Abstract. Con una prima segnalazione delle iniziative promosse nell’ambito dell’ordinamento britannico in materia di scienza e diritto[1], abbiamo esaminato il progetto avviato dalla Royal Society di Londra per la realizzazione di una serie di manuali in materia di prova scientifica, che ha già condotto alla pubblicazione, il 22 novembre 2017, dei primi due compendi in tema di “DNA fingerprinting” e “Gait analysis”, distribuiti a tutte le corti del Regno Unito[2].

D’altra parte, come si avrà modo di illustrare nelle pagine a seguire, la realizzazione di tali manuali a uso e consumo dei giudici si inserisce nel solco di una tradizione accademica che da anni si dimostra pienamente consapevole dell’inscindibile rapporto esistente tra scienza e diritto e particolarmente attenta a vagliare tutte le implicazioni pratiche di tale profonda interconnessione[3].

Più nello specifico, il progetto per la realizzazione dei compendi nasce nell’ambito di un più generale piano di studi promosso nel 2011 dalla stessa Royal Society, denominato “Brain Waves” (onde cerebrali), con il quale l’accademia si è impegnata a investigare i progressi compiuti nel campo della neuroscienza e delle neurotecnologie, e a sondare le potenzialità e i limiti di applicazione di tali conoscenze in svariati ambiti dell’ordinamento, unitamente ai benefici e ai rischi connessi a tale approccio.

 

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Neuroscienza e responsabilità legale. – 3. La valutazione del rischio di recidiva. – 4. Le dichiarazioni mendaci. – 5. La valutazione dell’attendibilità del ricordo del teste chiamato a rendere dichiarazioni a processo. – 6. Le basi neurobiologiche della percezione del dolore. – 7. La diagnosi della Non-Accidental Head Injury (NAHI) nei bambini o negli infanti (c.d. Shaken Baby Syndrome). – 8. Conclusioni e raccomandazioni.

1. Premessa.

Il programma di lavoro “Brain Waves” si è articolato in quattro distinte direttive di indagine, i cui risultati sono stati compendiati in altrettanti report pubblicati dall’accademia sul proprio sito internet: Brain Waves 1 “Neuroscience, society and policy; Brain Waves 2 “Neuroscience: implication for education and lifelong learning; Brain Waves 3   “Neuroscience, conflict and security”; Brain Waves 4 Neuroscience and the law.

L’ultimo modulo di studi del progetto Brain Waves, dedicato, nello specifico, alla ricostruzione dei rapporti esistenti tra neuroscienza e diritto, è nato, più in particolare, dall’avvertita esigenza di colmare «l’ampio divario esistente tra la ricerca condotta dai neuroscienziati e la realtà del lavoro quotidianamente svolto nell’ambito del sistema giudiziario»[4].

Nella presentazione del report dedicato a tale tematica[5] si stigmatizza infatti l’assoluta carenza, nel Regno Unito, di momenti di incontro e confronto tra neuroscienziati e professionisti del settore legale che, al contrario, potrebbero rappresentare importanti occasioni di scambio intellettuale utili a identificare ed esplorare le aree di comune interesse e le profonde interconnessioni tra le due materie.

La concreta possibilità di interrelazione tra le due discipline risulterebbe, peraltro, fortemente ostacolata dall’assenza di elementi di convergenza nei percorsi formativi che oggi sono indirizzati a giuristi e scienziati: nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, non soltanto «giudici e avvocati […] spesso non hanno alcuna preparazione in materia scientifica», ma anche «gli studenti delle facoltà universitarie di neuroscienza non vengono istruiti in ordine alle concrete implicazioni, in ambito sociale, della disciplina oggetto di apprendimento»[6].

Posto, però, che obiettivo primario delle neuroscienze è quello di «determinare le modalità con cui le funzioni cerebrali influenzano i comportamenti umani» e che la regolamentazione di tali comportamenti è compito precipuo del diritto, è ragionevole domandarsi – dicono gli autori del report – «se e in che modo la neuroscienza potrebbe o dovrebbe influenzare il diritto»[7].

L’approccio degli studiosi a tale fondamentale questione si dimostra, sin da subito, particolarmente prudente.

Il report si apre con un monito chiaro: «affermare che gli assassini possono essere identificati grazie allo studio delle immagini del loro cervello o che esiste un gene associato alla psicopatia o ai comportamenti violenti o antisociali è completamente fuorviante[8]».

Del resto, lungo tutta la relazione, gli studiosi si affannano a cercare un punto di equilibrio tra il riconoscimento delle indubbie implicazioni pratiche che la neuroscienza è destinata a esplicare in ambito giuridico e la necessità di prendere le distanze dagli approcci più radicali che attribuiscono a tali conoscenze scientifiche la capacità di mettere in discussione e rivoluzionare l’intero sistema legale attuale.

Così, oltre a mettere in luce i limiti connaturati alle evidenze neuroscientifiche attualmente disponibili e ai tentativi di impiegare acriticamente tali acquisizioni in campo giuridico[9], gli autori del report si preoccupano anche di ribadire più volte al lettore la necessità di evitare pericolose generalizzazioni e di affiancare sempre ai dati neuroscientifici ulteriori tecniche e approcci di indagine, al fine di pervenire a conclusioni che possano ritenersi complete e significative anche per il diritto.

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A detta degli studiosi, infatti, «la neuroscienza da sola non può dare risposta alle domande che assumono rilevanza per il diritto. Deve essere utilizzata congiuntamente ad altre discipline come la genetica comportamentale, la psicologia, le scienze del comportamento e la sociologia. La neuroscienza può indicare alcune, ma non tutte le condizioni fondamentali che stanno alla base del comportamento e dell’agire consapevole»[10].

In che termini, allora, gli autori ritengono che le acquisizioni maturate in ambito neuroscientifico possano incidere sul diritto, e quali sono le sfide connesse all’interrelazione tra le due discipline?

È ragionevole domandarsi – dicono gli autori del report – «se e in che modo la neuroscienza potrebbe o dovrebbe influenzare il diritto

2. Neuroscienza e responsabilità legale.

Posto che nelle società moderne «il concetto di responsabilità legale è inscindibilmente connesso all’idea per cui gli individui scelgono di comportarsi in un determinato modo e hanno sempre la possibilità di agire diversamente [da come in effetti agiscono]»[11], gli autori si chiedono, anzitutto, se gli studi che hanno osservato l’esistenza di correlazioni specifiche tra determinate caratteristiche del cervello e un aumento della propensione del soggetto a comportarsi in una certa maniera siano o meno in grado di stravolgere le fondamentali assunzioni poste alla base di ogni giudizio di responsabilità individuale.

C’è, infatti, chi sostiene che tali evidenze avrebbero fortemente indebolito i comuni postulati in tema di esistenza del libero arbitrio, responsabilità e autonomia nelle scelte individuali[12].

Più cauta è, invece, la posizione espressa dagli autori del report.

Questi ultimi, in prima battuta, – con un’asserzione a dire il vero vagamente apodittica – sostengono che «la questione filosofica che attiene all’esistenza del libero arbitrio nell’uomo non assume rilevanza nella pratica giudiziaria»[13] e, successivamente, affermano che, «sebbene la neuroscienza si proponga di migliorare la comprensione delle modalità con cui determinati accadimenti a livello neurale sono associati a particolari azioni, anche se è dimostrato che gli eventi che si realizzano a livello neurale determinano specifiche azioni», ciò non implica necessariamente che sia «ingiusto o inappropriato ritenere i singoli responsabili per le loro azioni», posto che «vi sono diversi antecedenti che esercitano un’influenza causale sulle singole azioni» e tali antecedenti possono avere tanto una natura biologica, neurologica o chimica, quanto una natura sociale (pressioni ambientali, educazione, conoscenze e convinzioni personali)[14].

A detta degli stessi studiosi, tuttavia, ciò non significa affatto negare il fondamentale contributo che la neuroscienza è in grado di apportare ai fini del perseguimento dell’obiettivo primario del diritto, inteso come pratica sociale, che è quello di stabilire quali antecedenti causali siano in grado di legittimare, scusare o rendere meno grave una determinata azione.

Anzitutto – rilevano gli autori – la neuroscienza è già impiegata, e potrà esserlo ancora maggiormente in futuro, ai fini dell’accertamento della minorata capacità di intendere e di volere del soggetto imputato (c.d. “diminished responsibility”).

Decisivi appaiono, ad esempio, gli esiti degli studi che hanno indagato la struttura e il funzionamento del cervello dei soggetti minori: studi destinati ad assumere un’importanza fondamentale se si considera che oggi, nell’ambito del sistema giudiziario inglese, un soggetto minore è ritenuto penalmente imputabile a partire dai 10 anni d’età.

La neuroscienza è già impiegata, e potrà esserlo ancora maggiormente in futuro, ai fini dell’accertamento di una minorata capacità di intendere e di volere del soggetto imputato

Ebbene, in primo luogo, le predette ricerche hanno consentito di accertare che lo sviluppo dei circuiti neurali che influenzano le funzionalità mentali e che stanno alla base del comportamento umano prosegue, in media, almeno sino ai 20 anni e, in ogni caso, che le concrete tempistiche e l’andamento di tale processo di maturazione variano enormemente da individuo a individuo.

Non solo. Gli stessi studi hanno altresì evidenziato che lo sviluppo cerebrale non progredisce alla medesima velocità in tutte le aree del cervello: più in particolare, la corteccia prefrontale – che ha un ruolo fondamentale nella determinazione delle capacità decisionali, di giudizio e di controllo degli impulsi del singolo – è l’area cerebrale che si sviluppa in assoluto più lentamente, mentre l’amigdala – ossia l’area del cervello responsabile dell’elaborazione dei meccanismi psicologici correlati alla motivazione, alla gratificazione personale e alle emozioni – matura già nella prima adolescenza.

Dunque, il carattere acuito delle reazioni emotive e dei comportamenti a rischio che connotano l’età adolescenziale potrebbe spiegarsi proprio alla luce della descritta discrasia temporale nei processi di maturazione delle due aree del cervello.

Tali conclusioni – sostengono gli autori –, da un lato, imporrebbero al giudice di tenere in debita considerazione lo specifico stadio di sviluppo cerebrale del singolo individuo ai fini della formulazione di qualsivoglia giudizio di responsabilità individuale; dall’altro lato, suggerirebbero l’opportunità di considerare l’età adolescenziale al momento della commissione di un fatto di reato quale circostanza idonea ad attenuare la pena in concreto da irrogare.

Altrettanto significativi, nella prospettiva di affermare la diminuita imputabilità del soggetto sottoposto a processo, sono poi gli studi neuroscientifici che hanno consentito di correlare l’insorgere di comportamenti antisociali nel singolo all’occorrenza di lesioni in determinate aree del cervello.

In particolare, è stato possibile ricondurre a specifiche menomazioni all’area del cervello preposta alla regolamentazione dei comportamenti sociali (la corteccia orbitofrontale) sia l’incremento della propensione del soggetto ad assumere decisioni d’impulso volte a ottenere gratificazioni immediate, sia l’incapacità del singolo di approcciarsi alle situazioni sociali in maniera appropriata[15].

Che la neuroscienza rappresenti un fondamentale strumento di indagine destinato ad assumere sempre maggior peso nei procedimenti in cui si dibatte sullo stato mentale dell’imputato è, del resto, reso manifesto dai dati relativi all’utilizzo di tale evidenza scientifica nei processi penali celebrati negli ultimi anni negli Stati Uniti.

Nell’esperienza americana portata a esempio nel report[16] è, infatti, possibile osservare un deciso incremento dei casi in cui le difese degli imputati si sono avvalse di prove neurologiche o di genetica comportamentale: la distribuzione del campione di 722 science opinions raccolte tra il 2005 e il 2009 evidenzia infatti il raddoppio, negli ultimi due anni di indagine, dei casi di utilizzo a processo delle predette evidenze scientifiche.

Le evidenze neurologiche sono già utilizzate in un’ampia gamma di casi negli Stati Uniti, e sarebbe sorprendente se questo trend non proseguisse

Ma non è tutto. A detta degli autori, le aree di possibile interrelazione tra neuroscienza e diritto sono in realtà destinate a espandersi ancora maggiormente in futuro: non soltanto la neuroscienza potrà essere utilizzata «per suggerire che il grado di responsabilità dell’imputato in relazione alle proprie azioni risulta mitigato al punto tale da doversi tradurre in una riduzione di pena»[17], ma, ad esempio, potrà anche guidare il giudice nei casi in cui è chiamato a stabilire se «il mantenimento dello stato di detenzione sia o meno necessario per proteggere la società [dalle possibili conseguenze del] rilascio di un soggetto identificato dal sistema come potenzialmente pericoloso» o, ancora, potrà «fornire evidenze circa la risposta di ciascun individuo alle diverse forme di intervento o di riabilitazione»[18].

Gli autori si sforzano, dunque, di identificare alcuni degli ulteriori terreni di possibile incontro e scambio tra le due discipline, premettendo però, con la consueta prudenza: «non è nostra intenzione suggerire che la neuroscienza dovrebbe necessariamente essere utilizzata o che certamente avrà un impatto significativo in tutti gli esempi che citiamo. Abbiamo visto che le evidenze neurologiche sono già utilizzate in un’ampia gamma di casi negli Stati Uniti, e sarebbe sorprendente se questo trend non proseguisse»[19].

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3. La valutazione del rischio di recidiva.

Il primo campo preso in esame dagli autori è quello della valutazione del rischio di recidiva.

Si tratta di una tematica che assume particolare rilievo nella pratica giudiziaria, posto che il giudice è chiamato assai di frequente a compiere un giudizio prognostico sulla condotta dell’imputato ai fini dell’emissione dei propri provvedimenti decisori: ad esempio, per la identificazione della pena in concreto da comminare con la sentenza di condanna o per la valutazione dell’opportunità di concedere la sospensione condizionale della pena o il rilascio anticipato di un soggetto, a fronte dell’esecuzione di una porzione della sanzione detentiva irrogatagli in sede di condanna.

La necessità di sviluppare sistemi affidabili per la valutazione del rischio di recidiva si è, peraltro, imposta con particolare forza a seguito della introduzione, all’interno del Criminal Justice Act del 2003, del c.d. “Imprisonment for Public Protection(IPP), un istituto che consentiva ai giudici inglesi di irrogare la pena della reclusione a tempo indeterminato nei confronti di soggetti che, pur avendo commesso un  reato minore non sanzionabile con l’ergastolo, si riteneva potessero costituire, se rilasciati, un pericolo per la pubblica sicurezza[20].

Abrogata nel 2012 (esclusivamente pro futuro), in quanto ritenuta contraria ai principi fondanti dell’ordinamento penale inglese – che escludono la possibilità di privare un soggetto della propria libertà personale esclusivamente in forza della predizione di un rischio futuro e non in ragione di una condotta criminosa già posta in essere –, tale previsione contava, infatti, alla fine di marzo del 2011, ben 6.550 casi di applicazione pratica[21].

Ora – rilevano gli autori –, sebbene i metodi di risk assessment fondati sull’utilizzo delle acquisizioni neuroscientifiche siano, allo stato, ancora oggetto di approfondimento e ricerca, è certamente opportuno confrontarsi con le tecniche di indagine correntemente utilizzate[22] per capire se «esiste una qualche ragione per ritenere che la neuroscienza dovrebbe essere utilizzata per migliorarle»[23].

Gli autori, più in particolare, si domandano: «è possibile che le evidenze maturate nel campo della neuroscienza o della genetica comportamentale vengano usate un giorno, unitamente alle tecniche attualmente disponibili, per incrementare il livello di accuratezza della valutazione in ordine al rischio di recidiva? Sarebbe possibile identificare marcatori neurobiologici della propensione a comportamenti violenti o impulsivi che potrebbero essere utilizzati nelle decisioni in tema di concessione della libertà vigilata o della libertà condizionale?»[24].

È possibile che le evidenze maturate nel campo della neuroscienza o della genetica comportamentale vengano usate un giorno, unitamente alle tecniche attualmente disponibili, per incrementare il livello di accuratezza della valutazione in ordine al rischio di recidiva?

Ebbene, ancora una volta, l’approccio degli studiosi è prudente: «sebbene una tale identificazione non possa di per sé ritenersi sufficientemente accurata, se considerata da sola, per fondare una decisione idonea a incidere sul destino di un individuo, potrebbe essere utile in combinato con altre informazioni ai fini della valutazione del rischio di recidiva»[25].

Posto, infatti, che la valutazione del rischio di recidiva si fonda sulla predizione del grado di probabilità che un soggetto ponga in essere comportamenti devianti, «alla luce di ciò che si sa di tale individuo o di ciò che è possibile inferire dai dati relativi a soggetti che presentano caratteristiche personali assimilabili a quest’ultimo», anche la prova genetica e così pure quella neuroscientifica potrebbero fornire informazioni utili al fine di predire il rischio che un individuo torni a delinquere in futuro[26].

Sul punto, innanzitutto, gli autori richiamano le ricerche condotte attraverso l’utilizzo delle più recenti tecnologie di neuroimaging, che hanno consentito di osservare peculiari caratteristiche nella struttura cerebrale dei soggetti che hanno commesso determinate categorie di reato e negli individui in relazione ai quali è stata formulata una diagnosi di psicopatia[27].

Gli studiosi fanno, inoltre, rinvio ad approfonditi studi eseguiti su oltre 2000 fratelli gemelli, che avrebbero consentito di rintracciare alcune tipicità nel funzionamento dell’attività di determinate aree del cervello in presenza di caratteristiche genetiche direttamente correlate allo sviluppo di una particolare propensione alla violenza e di comportamenti antisociali.

Ad esempio, tali studi avrebbero osservato una significativa associazione tra bassi livelli del gene deputato alla codificazione dell’enzima monoammina ossidasi, il c.d. MAOA, e l’incremento di comportamenti aggressivi in giovani individui cresciuti in contesti di abuso e, al contempo, un differente funzionamento nell’attività delle aree cerebrali dell’amigdala e della corteccia orbitofrontale, in presenza di diverse varianti di tale gene[28].

4. Le dichiarazioni mendaci.

Altro campo in relazione al quale gli studiosi si impegnano a vagliare le possibili implicazioni pratiche delle acquisizioni maturate in ambito neuroscientifico è quello dell’accertamento della veridicità delle dichiarazioni rese dall’imputato a processo.

Più in particolare, gli autori si domandano se gli studi condotti attraverso l’impiego delle più moderne tecniche di mappatura cerebrale, che hanno consentito di verificare l’attivazione della corteccia prefrontale del soggetto esaminato quando viene ingaggiato in particolari sforzi cognitivi o invitato a scegliere tra diverse azioni prospettategli come alternative, possano essere utilizzate nell’ambito della pratica giudiziaria al fine di identificare eventuali sforzi cognitivi compiuti dal soggetto interrogato per sopprimere la verità e fabbricare una menzogna.

Gli studiosi, anche in questo caso, si dimostrano cauti e mettono in luce i problemi e i limiti connessi a tale tipologia di indagine; limiti, peraltro, già emersi con riferimento all’impiego di macchinari (c.d. “lie detector”) che ricorrono alle tecniche di neuroimaging al fine di stabilire la veridicità o falsità delle dichiarazioni rese da un soggetto a processo, e che non hanno sempre fornito risultati affidabili[29].

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Innanzitutto, il ricorso alla mappatura cerebrale si dimostrerebbe fallace in tutti i casi in cui l’imputato sottoposto a esame sia intimamente convinto della verità delle proprie affermazioni, a prescindere dal fatto che le stesse corrispondano o meno alla verità dei fatti: in una tale evenienza, infatti, il soggetto non dovrebbe effettuare alcuno sforzo cognitivo al fine di celare una realtà dei fatti diversa da quella concretamente rappresentata, banalmente perché, per lui, tale ulteriore realtà, quella corrispondente a verità, non esisterebbe.

Del resto, non soltanto sarebbe relativamente semplice dare luogo a risultati “falsi positivi” in presenza di un particolare sforzo cognitivo richiesto al soggetto esaminato per rispondere secondo verità a determinati quesiti, ma, in ogni caso, – rilevano gli autori –«sebbene la risonanza magnetica funzionale sia in grado di rilevare un incremento dell’attività in determinate aree del cervello quando un soggetto mente, questo non significa che tutte le volte in cui si osserva un tale incremento il soggetto stia necessariamente mentendo»[30].

5. La valutazione dell’attendibilità del ricordo del teste chiamato a rendere dichiarazioni a processo.

tratteggiare le peculiari modalità di funzionamento dei sistemi di elaborazione individuale della memoria, hanno fornito importanti elementi di valutazione anche ai fini della formulazione di un giudizio di attendibilità delle dichiarazioni testimoniali, avendo per esempio fatto emergere che: il ricordo degli individui si focalizza sull’essenza degli eventi immagazzinati nel sistema della memoria, ma tende a rimuovere i dettagli che potrebbero assumere rilievo nell’ambito del processo; le capacità di immagazzinare e recuperare i ricordi variano in maniera considerevole a seconda dell’età del soggetto (sono bassissime prima dei 5 anni e tendono via via a indebolirsi dopo i 60 anni); il ricordo di eventi traumatici può assumere caratteristiche profondamente diverse e ripresentarsi con frequenza in maniera anche ossessiva o, al contrario, essere totalmente rimosso dalla memoria del singolo; le stesse modalità con le quali viene condotto l’esame testimoniale possono interferire nel processo di rielaborazione della memoria individuale.

Proprio sulla scorta di tale ultima evidenza, da un lato, è stato elaborato il c.d. “Cognitive Interview”, un metodo che consente di ottimizzare il recupero delle informazioni immagazzinate nella memoria del teste, e che oggi è frequentemente utilizzato dalle corti britanniche e dalla polizia nei casi di esame di soggetti minori; dall’altro lato, sono stati perfezionati i metodi di intervista dei testi chiamati a effettuare, tramite l’esame di diversi volti, il riconoscimento dell’autore del reato, nel tentativo di incrementare l’affidabilità di tali prove testimoniali.

Resta, tuttavia, ancora da stabilire sino a che punto la neuroscienza e le nuove tecnologie di neuroimaging possano consentire di vagliare la veridicità e attendibilità del ricordo dei testimoni.

In proposito, gli autori richiamano gli esiti delle ricerche che hanno permesso di rintracciare significative differenze nell’attività neurale dei soggetti a seconda che si trovino a processare informazioni che appartengono già al proprio vissuto e alla propria memoria o, al contrario, informazioni nuove.

Nell’ambito di esperimenti che prevedono che il soggetto esaminato analizzi una lista di nomi o una serie di immagini che ritraggono diversi volti e, successivamente, indichi all’esaminatore se i nomi o le immagini che gli vengono via via mostrati appartengono o meno alla lista originariamente consultata, è stato infatti possibile osservare un diverso atteggiarsi dell’attività neurale, a seconda che il singolo identifichi correttamente un’immagine già visualizzata in precedenza, o un’immagine mai vista prima.

Ebbene, anche in questo caso gli autori si muovono con la consueta prudenza, anzitutto mettendo in luce che l’impiego delle tecniche di mappatura cerebrale non è in grado di fornire risultati affidabili ogniqualvolta il teste abbia intimamente maturato una convinzione non corrispondente alla realtà dei fatti: «la risonanza magnetica funzionale ha dato lo stesso risultato tutte le volte in cui il partecipante aveva la convinzione che il viso non fosse ricompreso nella lista originaria, a prescindere dal fatto che lo avesse già visualizzato oppure no»[31],[32].

Gli studiosi rilevano, inoltre, che «in tutti questi esperimenti l’intervallo di tempo intercorrente tra il momento in cui il soggetto esaminato analizza la lista e quello in cui gli viene richiesto di identificare volti e parole nuove o conosciute è dell’ordine di pochi minuti. Resta ancora da verificare l’eventuale persistenza di tali differenze anche nel caso in cui l’intervallo di tempo tra lo studio [della lista] e il [successivo] test sia di più giorni o settimane[33],[34].

Sempre a proposito del possibile impatto delle ricerche in ambito neuroscientifico sull’accertamento dell’attendibilità del ricordo dei soggetti chiamati a rendere testimonianza a processo, gli autori si soffermano poi sul tema della c.d. “rimozione dei ricordi”.

È acclarato, infatti, che quando un soggetto agisce sotto l’effetto di sostanze stupefacenti non ha ricordo delle azioni compiute. A partire da tale dato, gli studiosi rilevano come «in teoria, in futuro potrebbe essere possibile prevenire la formazione di un ricordo, immediatamente dopo che un’azione è stata posta in essere o dopo aver richiamato il ricordo [alla mente], attraverso l’utilizzo di droghe che impediscono la sintesi delle proteine chiave nella formazione della memoria»[35],[36].

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Se questo fosse possibile – rilevano gli studiosi – si avrebbero importanti implicazioni nel campo del diritto: anzitutto, perché gli autori di un reato potrebbero tentare «di cancellare il ricordo di un’attività criminale»[37].

In secondo luogo, perché la vittima di un grave incidente, nel tentativo di mitigare la propria sofferenza e la propria afflizione, potrebbe utilizzare i predetti inibitori al fine di rimuovere il ricordo dei fatti connessi a tale esperienza dolorosa; con la conseguenza, ulteriore, che tali soggetti diverrebbero totalmente «incapaci di prestare il proprio contributo nello svolgimento delle indagini volte a ricostruire la dinamica dei fatti, e di essere chiamati a testimoniare in aula»[38].

Inevitabilmente, dunque, in una tale evenienza, si porrebbe «la necessità di trovare il giusto bilanciamento tra l’esigenza di protezione della vittima e quella della certezza del diritto»[39].

6. Le basi neurobiologiche della percezione del dolore.

In molti processi civili il giudice si trova a dover verificare se il livello di dolore lamentato dal ricorrente sia reale o frutto di esagerazione e se, in tale ultimo caso, la falsa indicazione fornita dall’attore sia riconducibile alla mala fede del soggetto o sia altrimenti giustificabile.

Ebbene, gli autori del report ritengono che un importante contributo in materia possa essere apportato dagli studi neuroscientifici che hanno ricostruito i meccanismi di elaborazione cerebrale che stanno alla base della percezione del dolore nei singoli individui.

Le forme acute di dolore risultano, infatti, correlate a complessi sistemi di trasmissione a livello neurale: in particolare, i nocicettori, terminazioni nervose periferiche, riconoscono gli stimoli in grado di produrre potenzialmente o concretamente un danno tissutale, li trasmettono al cervello ed è poi quest’ultimo a compiere le ulteriori elaborazioni che danno luogo alla concreta sensazione di dolore avvertita dal singolo.

È stato, tuttavia, dimostrato che quando tali stimoli esterni vengono trasmessi, attraverso il sistema nervoso periferico, dai nocicettori al midollo spinale e successivamente al cervello, possono subire significative modulazioni; di talché, il segnale che arriva al cervello per essere processato e produrre la concreta sensazione di dolore può essere molto diverso da quello inizialmente colto dai recettori neurali.

Inoltre – precisano gli autori –, le tecniche di neuroimaging che permettono di identificare l’attivazione di determinate aree del cervello durante le esperienze di dolore fisico hanno consentito di accertare come i processi di elaborazione del dolore possano essere enormemente influenzati da diversi fattori, quali l’ansia, la depressione e altre condizioni psicologiche individuali.

Da tali evidenze gli studiosi traggono, dunque, una serie di conclusioni utili ai fini della valutazione dell’attendibilità del livello di dolore allegato dal ricorrente: «la sensazione di dolore può essere genuinamente riportata anche in assenza di visibili lesioni tissutali»; «il livello di dolore sperimentato dal singolo è difficile da predire, ed è solo di rado linearmente correlato all’estensione della lesione [in concreto patita]»; «l’esperienza del dolore di ogni singolo individuo può variare in presenza di una molteplicità di fattori»[40] (ansietà, depressione, e altri turbamenti psicologici).

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7. La diagnosi della Non-Accidental Head Injury (NAHI) nei bambini o negli infanti (c.d. Shaken Baby Syndrome).

Gli studiosi ritengono che le acquisizioni neuroscientifiche potrebbero avere una rilevanza immediata per la pratica giudiziaria anche nell’ambito dei numerosi processi in cui si discute sulla riconducibilità alla c.d. Shaken Baby Syndrome[41] delle lesioni all’encefalo riscontrate in bambini e infanti: una questione che è sistematicamente oggetto di pareri discordanti da parte degli scienziati chiamati a intervenire a processo in qualità di esperti.

La diagnosi forense di NAHI richiede infatti di accertare, mediante esame autoptico del cadavere del bambino, la sussistenza di una triade di fattori (encefalopatia, ematoma subdurale ed emorragia retinale). Tuttavia, a oggi non si registra consenso tra gli scienziati in ordine al significato concreto da attribuire al riscontro pratico di questi elementi: mentre alcuni esperti ritengono sufficienti tali evidenze per fondare una diagnosi di NAHI, altri sostengono, al contrario, l’impossibilità di escludere che le lesioni a livello cerebrale riscontrate nei bambini derivino da cause diverse rispetto al trauma “da scuotimento”.

Gli autori evidenziano, peraltro, che i predetti temi sono stati oggetto di un incontro organizzato dal Royal College of Pathologists nel 2009, all’esito del quale gli studiosi intervenuti in qualità di esperti, rilevato che «l’esistenza della triade fornisce una forte argomentazione, prima facie idonea a far propendere per un caso di NAHI, ma che potrebbe non risultare sufficiente a provarne la concreta occorrenza in tutti i casi»[42], hanno espressamente sollecitato l’approfondimento degli studi neuroscientifici già compiuti in materia.

8. Conclusioni e raccomandazioni.

All’esito della propria analisi, gli autori prendono le distanze da chi, pochi anni prima, aveva ritenuto che «per il diritto la neuroscienza cambia tutto e niente»[43] e concludono che «le scoperte nel campo della neuroscienza (della genetica o della psicologia) non rivoluzioneranno la teoria e la pratica del diritto nel prossimo futuro, ma ci sono già alcune importanti implicazioni pratiche delle recenti scoperte neuroscientifiche che potrebbero avere un impatto sul diritto e ve ne saranno certamente molte di più nei prossimi anni»[44].

Di qui, l’affermata necessità che i professionisti operanti a qualsiasi livello del sistema legale – destinati, presto o tardi, a imbattersi nelle ingombranti implicazioni pratiche della neuroscienza – «conoscano i principi fondamentali sui quali si fonda tale scienza, nonché i limiti delle ricerche in materia e le sfide connesse alla relativa applicazione»[45] in ambito giudiziario.

Questa nuova consapevolezza spinge gli autori a formulare una serie di raccomandazioni che hanno come scopo proprio quello di colmare il divario che attualmente separa scienza e diritto. In particolare, gli studiosi sollecitano:

  • l’organizzazione, con cadenza almeno triennale, di incontri a livello internazionale tra neuroscienziati e professionisti che operano nell’ambito del settore legale, finalizzati alla discussione dei progressi compiuti nell’ambito delle ricerche neuroscientifiche e delle connesse possibili implicazioni pratiche in campo giuridico;
  • un’attività di revisione, a opera della magistratura e del Consiglio dell’Ordine degli avvocati, in collaborazione con associazioni culturali e altre società specializzate in ambito scientifico, dei sistemi utilizzati dai professionisti del settore legale per identificare, accedere e valutare la qualità delle conoscenze in ambito scientifico, affinché risultino sempre al passo con le più recenti indicazioni e scoperte disponibili;
  • un ripensamento dell’organizzazione dei percorsi di studio tanto in ambito giuridico – attraverso la previsione di specifici moduli formativi che approfondiscano i principi fondamentali delle principali discipline scientifiche, neuroscienza inclusa – quanto in campo neuroscientifico – mediante l’inclusione nei programmi di studio di attività didattiche specificatamente volte ad approfondire le possibili implicazioni, in ambito sociale, delle evidenze scientifiche oggetto di studio;
  • l’organizzazione di percorsi formativi rivolti a giudici, avvocati e funzionari preposti alla sorveglianza dei soggetti in stato di libertà provvisoria;
  • l’approfondimento degli studi in due ambiti di interesse ritenuti particolarmente rilevanti: la caratterizzazione a livello neuropatologico della c.d. NAHI (Non Accidental Head Injury); l’efficacia degli attuali strumenti di valutazione del rischio di recidiva e il possibile contributo apportabile dalle neuroscienze in materia.

Ci sono già alcune importanti implicazioni pratiche delle recenti scoperte neuroscientifiche che potrebbero avere un impatto sul diritto e ve ne saranno certamente molte di più nei prossimi anni

Del resto, è proprio in attuazione delle predette puntuali raccomandazioni che la Royal Society, grazie al supporto della Fondazione Dana[46] e in collaborazione con lo Judicial College, ha promosso, e promuove tutt’oggi, un programma di seminari, lezioni, incontri per la formazione continua professionale e convegni indirizzati agli addetti ai lavori del sistema giudiziario.

Tra le iniziative più rilevanti vanno annoverati, anzitutto, i numerosi seminari già organizzati dall’Accademia, aventi a oggetto i temi scientifici che assumono più di frequente rilievo nell’ambito dei procedimenti giudiziari (il ruolo della memoria nella prova testimoniale, incertezza e probabilità, capacità mentali, dolore, dipendenza da sostanze stupefacenti) e quelli in fase di preparazione, in materia di correzione dei geni umani, robotica e causalità; un ciclo di tre lezioniFact and Fiction in Brain Imaging”, “What makes a decision autonomous” e “DNA and the law”, rispettivamente tenute, tra il 2016 e il 2017, dai professori Ray Dolan, Steve Fleming e Gilean McVean; un seminario pilota destinato alla formazione di oltre 160 giudici e cancellieri in tema di Diritto e Probabilità; il discorso tenuto nel 2015 dal Primo Presidente della Corte Suprema dal titolo “Science and the law: contrast and cooperation”, con il quale il relatore ha cercato di tratteggiare somiglianze e differenze che connotano i metodi con cui i giuristi e gli scienziati ricavano le proprie conclusioni a partire da dati ed evidenze concrete.

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[1] Cfr. F. Tomasello, Scienza e Diritto nel Regno Unito. L’ordinamento britannico apre le porte ai manuali sulla prova scientifica, in questa rivista, 17 aprile 2019.

[2] Per un confronto con le iniziative promosse in materia nell’ordinamento statunitense, cfr. S. Arcieri, Il giudice e la scienza. L’esempio degli Stati Uniti: il Reference Manual on Scientific Evidence, in Diritto Penale Contemporaneo, 6 marzo 2017; per un approfondimento in relazione ai lavori e alle iniziative promosse dalla National Commission on Forensic Science (NCFS), creata nel 2013 dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti con il compito di studiare l’attuale stato dei rapporti tra il diritto e la scienza, al fine di elaborare proposte volte a migliorare la prassi e l’affidabilità della scienza forense, cfr. Ead., Il giudice e la scienza. L’esempio degli Stati Uniti – II – La National Commission on Forensic Science (NCFS), in ivi, 20 marzo 2017.

[3] Per un approfondimento in relazione ai problemi che connotano il rapporto tra scienza e processo penale, cfr. L. Santa Maria, Il diritto penale dalla A alla Z, in questa rivista, 3 aprile, 20129; Id., La verità. Il problema della verità: il giudice è il garante della la verità della sentenza ma…il processo accusatorio non è stato concepito per aiutare il giudice a trovare la verità. Il giudice e la scienza quando il peritus peritorum non sa di scienza, in Diritto Penale Contemporaneo, 1 marzo 2017; Id., A proposito del convegno “Rethinking wrongful conviction” Italia e USA: 25 anni di ritardo ed è ancora poco, troppo poco. Perché?, in ivi, 24 novembre 2017.

[4] «Big gap between research conducted by neuroscientists and the realities of the day to day work of the justice system», p. 33.

[5] Consultabile al seguente link: Brain Waves 4: Neuroscience and the law.

[6] «Lawyers and judges […] often have no training in scientific principles and may benefit from some basic instruction. Similarly undergraduates in neuroscience are not necessarily taught about the societal implications of the discipline», p. 34.

[7] «Neuroscientists seek to determine how brain function affects behaviour. The law is concerned with regulating behaviour, and so it is reasonable to ask whether and if so how, neuroscience could, or should, inform the law», p. V.

[8] «Claims that murderers can be identifi ed by imaging studies of their brains, or that there is a gene for psychopathy or for violent or antisocial behaviour are completely wide of the mark», ibidem.

[9] Gli autori evidenziano, innanzitutto, alcuni limiti correlati alla profonda diversità tra le due discipline oggetto di analisi, rilevando in particolare:

i) le difficoltà che si incontrano nell’applicare alla complessa e variegata realtà delle aule giudiziarie gli esiti delle ricerche neuroscientifiche, compiute per lo più tramite analisi di laboratorio che hanno a oggetto realtà necessariamente semplificate;

ii) i rischi connessi ai tentativi di applicazione ai singoli casi oggetto di interesse giudiziario degli esiti delle ricerche neuroscientifiche che si fondano sull’analisi di gruppi di individui e, dunque, sono in grado di fornire soltanto una “rappresentazione media” di determinati dati, che, alla luce della intrinseca e profonda diversità tra i singoli individui, non è idonea a rispecchiare necessariamente ciascuno dei soggetti appartenenti alla popolazione analizzata e, quindi, nemmeno il singolo individuo a processo.

Con riguardo, poi, alla portata delle acquisizioni maturate in ambito neuroscientifico, gli autori evidenziano:

i) la scarsità delle conoscenze oggi disponibili in relazione alle complicate correlazioni esistenti, da un lato, tra attività cerebrale e singoli processi mentali e, dall’altro lato, tra questi ultimi e determinati comportamenti;

ii) che anche laddove la neuroscienza consente di rilevare correlazioni significative tra determinati comportamenti e particolari caratteristiche della struttura cerebrale o del suo funzionamento, tale dato non è necessariamente significativo nella prospettiva di accertare la sussistenza di un rapporto di derivazione causale dei primi da queste ultime;

iii) la sussistenza del c.d. “Reverse inference problem”, ovverosia la difficoltà di inferire l’esistenza di particolari processi mentali dall’osservazione di una singola area del cervello. Sebbene, infatti, la neuroscienza abbia consentito di individuare relazioni sistematiche tra particolari aree del cervello e determinati processi mentali, è stato appurato che tale relazione non è del tipo 1 a 1: ciò significa che il medesimo processo mentale è correlato all’attività di diverse aree del cervello e, al contempo, che ciascuna area del cervello risulta coinvolta in diversi processi mentali.

[10] «Neuroscience alone cannot answer questions of relevance to the law. It must be used in conjunction with other disciplines such as behavioural genetics, psychology, behavioural sciences and sociology. Neuroscience can reveal some, but crucially not all, of the conditions necessary for behaviour and awareness», p. 11.

[11] «In modern societies, ideas about ‘responsibility’ are linked to the extent to which people choose to act in a certain way, and their ability to have acted otherwise», p. 11.

[12] Si veda sul punto il contributo a firma del Professor Wolf Singer del Max Planck Institute for Brain Research: W. Singer, A deterministic view of brain, mind and consciousness, in Brain Waves – Modulo 1, par 2.4, infra par. 4.1.

[13] «Within the practice of law, the philosophical question of whether or not humans have free will is not relevant», p. 12.

[14] «Although neuroscience purports to increase understanding of the way in which particular neural events are linked to particular actions, even if neural events are shown to cause certain acts, it does not follow that it is unfair or inappropriate to hold people responsible for their acts. Arguably, there are many antecedents which exercise causal effects on actions. Some of these antecedents are chemical, neurological or biological; others are social, peer example and pressure, education, knowledge and beliefs», p. 12.

[15] Gli autori richiamano, in proposito, il caso di un quarantenne americano che aveva improvvisamente sviluppato inusuali comportamenti sessuali e un interesse per la pedopornografia, e che era stato allontanato da casa per avere molestato la figliastra.

L’assoluta incapacità dell’uomo di controllare i propri impulsi sessuali – che aveva impedito allo stesso di portare a compimento i percorsi di riabilitazione impostigli dal giudice – era risultata conseguenza diretta dello sviluppo di un tumore maligno nella corteccia orbitofrontale del suo cervello: il descritto comportamento antisociale era, infatti, completamente scomparso a seguito della resecazione chirurgica del tumore, salvo poi ricomparire qualche anno dopo, in concomitanza con il ripresentarsi della patologia neoplastica e, nuovamente, venir meno a fronte della buona riuscita del secondo intervento di asportazione della massa tumorale, cui l’uomo era stato sottoposto. Pochi mesi dopo il secondo intervento chirurgico, il giudice, ravvisando la completa scomparsa nell’uomo di qualsivoglia comportamento anomalo, lo aveva autorizzato a fare ritorno a casa.

[16] Gli autori fanno riferimento ai dati raccolti nel database elaborato dalla Prof.ssa Nita Farahany, relativo ai casi in cui la prova neuroscientifica è stata presentata a processo negli Stati Uniti tra il 2005 e il 2009. La studiosa ha approfondito la propria indagine ed esteso il periodo di analisi sino al 2012 in un contributo pubblicato nel 2016 sulla rivista Journal of Law and the Biosciences, dal titolo: “Neuroscience and behavioral genetics in US criminal law: an empirical analysis”. Per un approfondimento in materia si veda S. Arcieri, Procedimenti penali e prova neuroscientifica: i database giudiziari internazionali, in questa rivista, 2 aprile 2019.

[17] «For some criminal offences, neuroscience may be used to suggest that the degree of responsibility of the defendant for their actions is mitigated in a manner which should be reflected by a reduced sentence», p. 12.

[18] «It might also be used to inform decisions as to whether or not continued detention may be necessary to protect society from the release of a prisoner identified by the system as potentially dangerous […] Furthermore, neuroscience may prove useful in providing evidence about an individual’s response to various forms of intervention or rehabilitation», p. 14.

[19] «Nor do we wish to suggest that neuroscience should necessarily be used, or will definitely impact, in all of the examples we cite. It has been seen that neurological evidence is already being used in wide array of cases in the USA […], and it would be surprising if this trend did not continue», p. 19.

[20] Più in particolare, in forza di tale previsione, l’imputato veniva sottoposto a controlli periodici da parte dell’autorità giudiziaria e poteva ottenere un rilascio anticipato solo a condizione che riuscisse a dimostrare ai giudici di non costituire più un pericolo per la collettività.

[21] L’utilizzo indiscriminato di tale forma di carcerazione preventiva andrebbe ricondotto – a detta degli autori – all’eccesso di prudenza con cui i giudici tendono ad approcciarsi alla valutazione del rischio di recidiva; un approccio che deve ritenersi direttamente correlato all’idea, assolutamente diffusa, secondo la quale, rilasciare un soggetto che potrebbe commettere un crimine futuro, soprattutto un crimine violento, avrebbe conseguenze più serie (anche in termini di pubblicità negativa) rispetto a quelle connesse alla scelta di mantenere in carcere un soggetto che, se rilasciato, verosimilmente non tornerebbe a delinquere.

[22] I metodi di valutazione del rischio di recidiva attualmente disponibili possono essere classificati in due categorie fondamentali: da un lato, il modello di valutazione clinica, che ricava il livello di rischio di recidiva sulla base di un’analisi clinica del singolo imputato a opera di uno o più esperti; dall’altro lato, il modello di valutazione attuariale, che prevede una stima del rischio di recidiva del singolo, sulla base del valore di rischio medio riscontrato in un gruppo di individui oggetto di analisi, con i quali il soggetto ha in comune determinate caratteristiche personali.

[23] « […] Neuroscientific methods for assessing risk remain in the research stage, and are not currently used in practice. However, it is worth looking at some currently used instruments to consider whether there is any reason to believe that neuroscience might be used to improve them», p. 21.

[24] «Is it possible that evidence from neuroscience or behavioural genetics could one day be used, along with existing techniques, to increase the accuracy of risk assessment? Might it be possible to find neurobiological markers of a propensity to violent or impulsive behaviour that could be used in decisions about probation and parole?», p. 22.

[25] «Whilst such identification might not of itself be accurate enough to make a decision on the fate of an individual when taken alone, it might be useful in combination with other information in the assessment of risk», p. 22.

[26] «If risk is a prediction of likelihood on the basis of what is known about that individual or of what is known from data on other similar individuals in the past, genetic evidence might in principle be used in combination with other risk assessment information», pp. 24-25.

[27] Addirittura – almeno stando ad alcune ricerche – tali peculiari caratteristiche sarebbero state riscontrate in bambini sottoposti a risonanza magnetica in presenza di particolari comportamenti antisociali, già a partire dai sette anni d’età.

[28] Tale evidenza scientifica è stata, peraltro, posta alla base della prima sentenza europea che ha riconosciuto che possedere il “gene della violenza” costituisce una circostanza idonea a mitigare la pena in concreto da irrogare: la Corte d’appello di Trieste ha, infatti, ridotto la pena applicata in primo grado nei confronti di Abdelmalek Bayout, imputato per il reato di omicidio, in quanto quest’ultimo, sottoposto a diversi test il DNA, era risultato possedere proprio il gene delle monoaminossidasi A (MAO-A), associato a uno scarso controllo dell’aggressività.

[29] A mero titolo di esempio, gli autori richiamano il caso di un imputato statunitense sottoposto per ben tre volte a tale test nel corso del processo, con esiti ogni volta differenti.

[30] «Even if fMRI can detect an increase in activity in certain regions of the brain when a subject is lying, this does not mean that if such an increase in activity is observed, then the participant must be lying», p. 26. Gli autori richiamo sul punto il c.d. “Reverse inference problem”, cfr. supra, nota 9.

[31] «However, fMRI gave the same reading whenever the participant believed that the face had not appeared in the original list, whether they had seen the face or not», p. 28.

[32] V. Rissman et al., Detecting individual memories through the neural decoding of memory states and past experience, in Proocedings of the National Academy of Science 107, 2010, pp. 9849 ss.

[33] «But in all these experiments the interval between studying a list and being asked to identify old and new faces or words was of the order of a few minutes. It remains to be seen whether this difference would persist when the interval between study and test was several days or weeks», p. 28.

[34] Gli autori richiamano, sul punto, una criticata sentenza di condanna pronunciata da un tribunale indiano – e poi riformata in sede di appello – nei confronti di una donna imputata per l’omicidio del compagno e fondata proprio sugli esiti dell’impiego a processo delle tecnologie di neuroimaging che avevano portato il giudice a ritenere sussistente la prova di una “conoscenza colpevole” in capo alla donna. In particolare, il giudicante aveva tratto tale convincimento dalla circostanza che, sottoponendo la donna a elettroencefalografia nel corso dell’udienza in cui erano stati ricostruiti i dettagli dell’omicidio (che si era certi potessero essere a conoscenza del solo autore del reato), era stato possibile riscontrare un’attivazione delle aree del cervello della medesima, deputate proprio al recupero dei ricordi già immagazzinati nella memoria.

[35] «In theory, it may also one day be possible to prevent the formation of memories either shortly after an action has taken place, or after a memory has been recalled, through the use of drugs that prevent the synthesis of key proteins in memory formation», p. 28.

[36] A oggi, gli effetti pericolosi per la salute connessi all’utilizzo di inibitori della sintesi di tali proteine non hanno consentito di testarli sugli umani. Gli autori rilevano però che qualche passo in avanti è già stato fatto nella ricerca di potenziali agenti per il trattamento dei disordini da stress post traumatico (c.d. PTSD): ad esempio, è stato possibile osservare che la somministrazione di propranololo è in grado di ridurre la forza dei ricordi emotivi quando vengono richiamati alla memoria.

[37] «If this were possible, it might have implications for the law – for instance, in seeking to “erase” a memory of criminal activity», p. 28.

[38] «Equally the victim of an horrific incident might seek to erase a painful memory, thereby mitigating their pain and distress but with the consequence of being thereby rendered unable to assist the investigation into what happened or give evidence in court», p. 29.

[39] «A problem would be the balance to be struck between victim protection and the demands of due process of law», p. 29.

[40] «Pain may be genuinely reported, even in the absence of visible or detectable damage to tissue […] The level of pain that an individual experiences is diff cult to predict and is rarely linearly related to the extent of tissue damage. […] Individuals’ experiences of pain can be changed by many different factors; for example anxiety, depression, attention and physiological changes can all alter brain processing just as much as causing more or less severe tissue damage», p. 30.

[41] Condizione patologica, riscontrata in molti infanti, che si estrinseca in lesioni all’encefalo e successive sequele neurologiche e che viene fatta derivare da un violento scuotimento del bambino o da un impatto traumatico violento contro una superficie rigida o semi-rigida.

[42] «The report of this meeting concluded that the existence of the triad provided a strong prima facie case for suspecting NAHI, but might not be sufficient in all cases to prove it», p. 31.

[43] J. Greene, J. Cohen, For the law, neuroscience changes nothing and everything, in Philos Trans R Soc Lond B Biol Sci, 359(1451), 2004, pp. 1775 ss.

[44] «Discoveries in neuroscience (or in genetics or psychology) will not completely revolutionise the theory and practice of the law in the near future; but there are already some important practical implications of recent neuroscientific discoveries, which should impact on the law, and there will certainly be many more over the next few years», p. V.

[45] «It is important that professionals at all stages of the legal system who might encounter neuroscience understand some of the key principles on which it is based; the limitations to what studies can tell us; and some of the generic challenges of its application», p. 34.

[46] Organizzazione filantropica privata che, attraverso l’assegnazione di borse di studio, pubblicazioni e la pianificazione di programmi educativi, ha fatto propria la missione di supportare le ricerche scientifiche sul cervello e di istruire in maniera responsabile la collettività circa le potenzialità dell’applicazione pratica degli esiti di tali ricerche. Per ogni ulteriore approfondimento, si rimanda al sito della fondazione: https://dana.org/ReportOnProgress/Schultz/.

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