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Fascicolo 9/2019

Nell’agosto del 1971, un giovane professore di psicologia dell’università di Stanford, Philip Zimbardo, cerca di comprendere, con un esperimento che passerà alla storia della psicologia sociale, in che modo potenti fattori situazionali possono a tal punto condizionare il comportamento di persone comuni, senza alcuna particolare inclinazione alla violenza, da indurle a compiere azioni cattive, inimmaginabili – persino per loro – in un contesto di normalità.

Per dirla con le parole di Zimbardo, l’esperimento – che prenderà il nome di “The Stanford prison experiment” – nasce animato dal tentativo di «comprendere i processi di trasformazione che si verificano quando persone buone o normali compiono azioni cattive»[1], e cioè di affrontare quella che Zimbardo definisce la “domanda fondamentale”: che cosa spinge le persone ad essere cattive?

L’esperimento […] nasce animato dal tentativo […] di affrontare quella che Zimbardo definisce la “domanda fondamentale”: che cosa spinge le persone ad essere cattive?

L’esperimento di Zimbardo, e l’idea di mettere alla prova il comportamento di persone ordinarie in situazioni straordinarie, non è peraltro nuova. Dieci anni prima, nel 1961 – mentre era in corso a Gerusalemme il processo celebrato all’ex funzionario nazista Adolf Eichmann, responsabile del trasferimento di centinaia di migliaia di ebrei verso i campi di sterminio – lo psicologo sociale Stanley Milgram, nell’università di Yale, aveva congegnato un originale esperimento per testare fino a che punto le persone sarebbero state disposte ad obbedire all’autorità[2]. In estrema sintesi, Milgram aveva reclutato alcuni volontari convincendoli che avrebbero partecipato ad un esperimento sulla memoria e sugli effetti dell’apprendimento, chiedendo loro di sottoporre ad alcuni test mnemonici altre persone (queste ultime attori complici di Milgram), e di infliggere scosse elettriche – non reali, ovviamente, ma che i volontari credevano tali – sempre più intense a fronte degli errori degli “allievi”. L’esito dell’esperimento fu sconcertante: la grande maggioranza dei volontari, condizionata dalla situazione di serietà del contesto e dall’autorevolezza del gruppo di ricerca, fu disposta consapevolmente ad aumentare le scosse elettriche sino ad una intensità che, se fosse stata reale, avrebbe determinato la morte degli “allievi”: e ciò nonostante i volontari sentissero nell’altra stanza gli allievi (che, lo ricordiamo, erano attori) urlare di dolore.

Una parentesi. Il Prof. Zimbardo, che abbiamo incontrato ed intervistato a San Francisco, ci ha raccontato che conosceva Stanley Milgram sin dai tempi in cui entrambi erano ragazzini nel Bronx, noto quartiere difficile di New York, soprattutto nel dopoguerra, e pare che Milgram, appena sedicenne, si chiedesse già all’epoca che cosa avrebbe fatto lui – che cosa avrebbero fatto tutti loro – se fossero stati giovani tedeschi durante il Terzo Reich.

Accade allora che a distanza di dieci anni dall’esperimento dell’amico e collega Milgram, in quell’estate del 1971, il Prof. Zimbardo, con l’aiuto dei suoi assistenti, allestisce nei sotterranei del campus di Stanford una finta prigione, e recluta una ventina di volontari (giovani studenti universitari, selezionati fra quelli più equilibrati e senza alcuna inclinazione alla violenza o precedenti penali) perché la metà di loro diventi per due settimane un detenuto e l’altra metà la guardia dei compagni trattenuti nella improvvisata “prigione” di Stanford.

Il Prof. Zimbardo […] ci ha raccontato che conosceva Stanley Milgram sin dai tempi in cui entrambi erano ragazzini nel Bronx, noto quartiere difficile di New York, soprattutto nel dopoguerra, e pare che Milgram, appena sedicenne, si chiedesse già all’epoca che cosa avrebbe fatto lui – che cosa avrebbero fatto tutti loro – se fossero stati giovani tedeschi durante il Terzo Reich

Le regole dell’esperimento, approvato dall’Università di Stanford, prevedono che tutti i partecipanti possano rinunciare in qualsiasi momento, e che la destinazione dei partecipanti al ruolo di detenuto piuttosto che di guardia sia affidata al caso: del resto, ricorda Zimbardo, nel 1971, sull’onda delle proteste dei movimenti studenteschi e del clima generale di ribellione verso i modelli autoritari del passato, la figura di guardia carceraria non era certamente fra le più ammirate ed ambite.

I detenuti sono privati dei loro abiti e della loro biancheria intima ed indossano un semplice camice, alla caviglia hanno una catena chiusa con un lucchetto, ai piedi calzano semplici sandali di gomma e sulla testa una calza di nylon, che evita di dover rasare i capelli (che all’epoca molti dei ragazzi portano lunghi fino alle spalle). Ai detenuti – e fra detenuti – ci si deve rivolgere esclusivamente con il numero cucito sul camice e all’ingresso del carcere di Stanford i volontari, dopo essere stati arrestati a casa da una pattuglia della polizia che collabora all’esperimento, vengono denudati e cosparsi di una polvere disinfettante.

Le guardie, che svolgono regolari turni di otto ore, indossano all’ingresso del “carcere” una divisa simile a quella di un poliziotto e occhiali a specchio.

Il Prof. Zimbardo, oltre ad osservare con alcune telecamere e microfoni ciò che accade nel “suo” carcere, decide di assumere la funzione di “sovrintendente” del carcere stesso, così da poter intervenire in caso di necessità senza interrompere l’esperimento.

L’esperimento dovrebbe durare due settimane. Il Prof. Zimbardo deve però interromperlo dopo soli cinque giorni.

Ciò che accade in quei giorni è minuziosamente descritto nel saggio del Prof. Zimbardo dal titolo – sin troppo eloquente – “L’effetto Lucifero”, ed è stato raccontato in due pellicole, di cui l’ultima del 2015[3].

L’esperimento dovrebbe durare due settimane. Il Prof. Zimbardo deve però interromperlo dopo soli cinque giorni.

In sintesi, comuni studenti universitari, che poi – concluso l’esperimento – condurranno una vita assolutamente normale, indossati i panni della guardia si trasformano in autentici aguzzini, e i ragazzi detenuti, dopo qualche iniziale tentativo di resistenza, diventano passive vittime delle angherie dei compagni: al punto che due di loro dovranno essere “rilasciati” dopo soli tre giorni per aver manifestato preoccupanti segni di crisi.

Quello che mostra l’esperimento di Zimbardo è una spaventosa immagine di ciò che Hannah Arendt ha definito, con insuperabile efficacia, la “banalità del male”, e cioè del definitivo tramonto dell’idea che il male sia prerogativa dei “mostri”, diversi dalle persone comuni – diversi da noi –, e che noi siamo immuni dal rischio di commettere azioni terribili.

Nel pensiero di Zimbardo non c’è però soltanto un viaggio in quella che il poeta Milton definiva “l’oscurità visibile”. Zimbardo ha costituito una fondazione che promuove l’“everyday heroism” (https://www.heroicimagination.org/), partendo dai ragazzi e dalle scuole, affinché i giovani sappiano che sono esposti a potenti forze situazionali e “sistemiche”, e siano pronti – un po’ più pronti – a diventare, a loro modo, in ogni piccolo gesto della vita quotidiana, “eroi” di ogni giorno.

Il Prof. Zimbardo inoltre è stato consulente tecnico della difesa di uno dei soldati statunitensi accusato degli abusi perpetrati nel carcere militare di Abu Ghraib in Iraq, le cui immagini, documentate dagli stessi aguzzini, sono tristemente note: nel saggio l’“Effetto Lucifero” si trova un’ampia descrizione della situazione di tale carcere e – soprattutto – delle stesse condizioni fisiche e psicologiche in cui i militari erano costretti ad operare[4].

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Abbiamo incontrato Philip Zimbardo a San Francisco[5], che ci ha ricevuto ed ospitato per qualche ora nella sua casa nei pressi della celebre Lombard Street, ripidissima e tortuosissima via circondata da aiuole e giardini, anche nota come “the Crooked Street” (la “via tortuosa”, letteralmente, e che pare le sia anche valso il titolo della “via più tortuosa del mondo”).

Un nota di colore. Lombard Street ha una regola ferrea, a cui ovviamente il taxi che ci ha accompagnato si è scrupolosamente attenuto: nessuna auto si può fermare, nemmeno per un istante, sui tornanti della “crooked”. Il risultato è che alla fine della strada siamo dovuti risalire, a piedi, verso la casa del Prof. Zimbardo.

Con Zimbardo, ad accoglierci, c’era anche la moglie, Christina Maslach, professoressa di psicologia sociale all’Università di Berkeley, e persona, come il marito, di straordinaria cortesia. La storia dell’esperimento carcerario di Stanford vuole tra l’altro che sia stata proprio la Prof.ssa Maslach, all’epoca giovane ricercatrice, ad indurre Zimbardo ad interrompere l’esperimento, dopo aver visto quanto stava accadendo fra i giovani volontari.

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Una postilla.

Dalla casa di Philip Zimbardo si ha una splendida vista sulla baia di San Francisco, ed in particolare sull’isola che ospita l’ex austero penitenziario di Alcatraz, convertito ormai da anni in museo ed oggi una delle principali attrazioni turistiche della città.

Ascoltare le parole di Zimbardo con lo sguardo rivolto al carcere più evocativo del mondo – definitivamente chiuso – ci è parsa una curiosa coincidenza, o se volete un segno.

Serendipity, direbbero gli americani.

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[1] P. Zimbardo, L’effetto Lucifero: cattivi si diventa?, Raffaello Cortina, 2008, p. 4.

[2] S. Milgram, Obbedienza all’autorità: uno sguardo sperimentale, Einaudi, 2003.

[3] Il titolo del film è, appunto, The Stanford Prison Experiment (tradotto in italiano con Effetto Lucifero) ed è diretto da Kyle Patrick Alvarez.

[4] Si veda, a tal proposito, Redazione, I fantasmi di Abu Ghraib, in questa rivista, 2 maggio 2019.

[5] All’incontro hanno partecipato, oltre al sottoscritto, Susanna Arcieri, Giovanna Baer e Leonardo Santa Maria.

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