Fascicolo 1/2021

Guarda anche il video della prima e della seconda parte della conversazione con Massimo Cacciari, pubblicate in questa rivista rispettivamente il 16 dicembre 2020 e il 13 gennaio 2021.

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«L’inferno fa parte della nostra storia, e della storia del diritto: all’inizio di ogni corso di diritto penale bisognerebbe commentare l’Inferno di Dante»: ad affermarlo è Massimo Cacciari, filosofo e docente emerito all’Università Vita-Salute San Raffaele, cui abbiamo chiesto una riflessione su diritto e libero arbitrio, coordinata da chi scrive con la partecipazione di Susanna Arcieri, Fabio Basile e Raffaele Bianchetti del Comitato di Direzione di Diritto Penale e Uomo.

Tra i fili conduttori della conversazione, il rapporto tra diritto e scienza: di diritto Cacciari si è occupato spesso, recentemente in un saggio scritto insieme a Natalino Irti a margine di un testo di Werner Jaeger, Elogio del diritto (La Nave di Teseo, 2019).

«L’inferno fa parte della nostra storia, e della storia del diritto: all’inizio di ogni corso di diritto penale bisognerebbe commentare l’Inferno di Dante»: ad affermarlo è Massimo Cacciari, filosofo e docente emerito all’Università Vita-Salute San Raffaele, cui abbiamo chiesto una riflessione su diritto e libero arbitrio

La riflessione sul rapporto tra filosofia e scienza nasce invece da un intervento recente del filosofo, che presentando Human Brains, il progetto su cervello e coscienza promosso dalla Fondazione Prada, ha parlato di un «salto quantico» per spiegare l’unicità della coscienza umana: «la filosofia deve occuparsi del progresso scientifico, e in particolare di quei rami della scienza che studiano le basi biologiche della nostra coscienza. Non puoi conoscere te stesso se non ti interroghi su quello che rende unico l’essere umano: sarebbe bene, anzi, che un corso su questi temi fosse inserito in tutte le facoltà universitarie», esordisce il filosofo, facendo riferimento al «drammatico salto» che ha segnato l’evoluzione della nostra specie con l’emergere di due fenomeni indissolubilmente legati come il linguaggio e la coscienza.

Oggi, prosegue Cacciari, non possiamo negare che la coscienza abbia una base biologica, «a meno che non si ritenga, con Dante, che la coscienza ci venga da Dio».

«Non puoi conoscere te stesso se non ti interroghi su quello che rende unico l’essere umano: sarebbe bene, anzi, che un corso su questi temi fosse inserito in tutte le facoltà universitarie», esordisce il filosofo, facendo riferimento al «drammatico salto» che ha segnato l’evoluzione della nostra specie con l’emergere di due fenomeni indissolubilmente legati come il linguaggio e la coscienza

È dai neuroni che emerge il fenomeno straordinario che Damasio chiama «il dono del sé». È il fatto di essere coscienti di noi stessi che ci dà la sensazione di essere liberi, «anche se in realtà non lo siamo davvero rispetto alla nostra base biologica – alla luce delle conoscenze scientifiche attuali, dobbiamo considerarci del tutto parte della natura – ma è così che ci percepiamo», osserva il filosofo.

«La libertà è un sentimento fondato sul nostro essere diversi dagli altri viventi». Per questo la nostra libertà è un vissuto soggettivo, non una realtà: «siamo condizionati come qualunque altro ente, ma il nostro essere straordinari ci porta a sentirci anche liberi», spiega Cacciari.

«Sono due modi di vedere la stessa cosa, da due prospettive diverse che non sono in contraddizione tra loro». Ma sollevano interrogativi interessanti sul diritto penale, un tema per il quale Massimo Cacciari confessa, rispondendo a una domanda di Fabio Basile, un’antica passione: «ha un fascino straordinario, puzza di inferno, come diceva Simone Weil. Anzi ci fa pensare all’inferno di Dante, dove tutto è in perfetto equilibrio, la punizione proporzionata alla colpa grazie a una giustizia divina basata sul contrappasso».

La nostra libertà è un vissuto soggettivo, non una realtà: «siamo condizionati come qualunque altro ente, ma il nostro essere straordinari ci porta a sentirci anche liberi», spiega Cacciari

Le cose si complicano se usciamo dalle pagine dantesche per entrare in un’aula di tribunale, e qui tornano in gioco i temi cui abbiamo accennato: «in termini generali, ogni azione conscia – ammettendo di sapere davvero cosa sia – è la punta dell’iceberg di un immenso inconscio», spiega Cacciari. «Un inconscio biologico, non freudiano, che gioca un ruolo importante nella produzione delle nostre azioni coscienti».

Quando siamo in tribunale, il giudice che infligge la pena giudica la parte emersa della nostra coscienza, senza sapere niente della base inconscia di ogni nostra azione. «In altri termini», prosegue il filosofo, «il diritto penale non tiene conto dell’inconscio – altrimenti verrebbe meno, e così ogni altra forma di diritto – e agisce come se questo problema non esistesse. Per questo puzza di inferno, come la giustizia divina di Dante».

È la scienza a chiedere a tutti noi, inclusi giudici e legislatori, di renderci conto di quanto la nostra coscienza e la nostra libertà, le nostre azioni e ciò che diciamo, siano da mettere in relazione a contenuti inconsci.

Anche se, attenzione, ricorda Cacciari rispondendo a Susanna Arcieri, l’inconscio non travolge il conscio né cancella il concetto di colpa: «o meglio, questo può avvenire in un malato in cui la parte inconscia ha soffocato ogni forma di coscienza e il sentimento di libertà, e in questo caso non è il diritto penale a entrare in gioco».

Quando siamo in tribunale, il giudice che infligge la pena giudica la parte emersa della nostra coscienza, senza sapere niente della base inconscia di ogni nostra azione […]. «Il diritto penale non tiene conto dell’inconscio – altrimenti verrebbe meno, e così ogni altra forma di diritto – e agisce come se questo problema non esistesse. Per questo puzza di inferno, come la giustizia divina di Dante»

Ci vuole modestia, ricorda il filosofo, per giudicare quello strano composto che è l’uomo: «non è irrazionale dare un giudizio su un atto, è irrazionale farlo come se esistesse solo la coscienza».

Anche se il diritto penale spesso emette sentenze senza tenerne conto. «Il dramma vero è il processo, che si svolge razionalmente per domande e risposte, e che è la grande metafora della nostra civiltà, il modello su cui si basano la tragedia greca e i dialoghi platonici», ricorda Cacciari. «Un dialogo che si svolge come se la nostra anima avesse un “egemone”, una parte razionale che riteniamo depositaria del nostro essere libero».

Si tratta di una convenzione, inevitabile per rendere possibile il giudizio, «però c’è modo e modo», avverte Cacciari, e ci sono altri fattori da considerare, come l’influenza della dottrina cristiana, un tema sollevato da Raffaele Bianchetti.

«Il dramma vero è il processo, che si svolge razionalmente per domande e risposte, e che è la grande metafora della nostra civiltà […]», ricorda Cacciari

«Nella tradizione cristiana, la giustizia divina è l’architrave dell’idea stessa di giustizia», spiega il filosofo con un esempio tratto dalla storia dell’arte, l’affresco di Ambrogio Lorenzetti che rappresenta il Buon Governo nel Palazzo Pubblico di Siena. Una scena laica, legata alla realtà, che è però dominata dalla giustizia divina, così come nello stesso affresco l’immagine del Comune, del potere politico, ha accanto la sé le virtù cardinali ma al di sopra le virtù teologali.

«Il giudice deve sempre tenere presente la giustizia divina, come nel paradigma dantesco in cui Dante giudica in nome di Dio», ricorda Cacciari.

Un collegamento tra immanenza e trascendenza che esisteva anche nel mondo classico con la relazione tra Dike e Nomos, e che oggi è crollato. Ma nel cristianesimo, accanto all’idea della giustizia perfetta nel risarcire la colpa, esiste un’altra idea fondamentale, «che è quella dell’amore e del perdono, che ci tiriamo dietro continuamente nella prassi del diritto», ricorda Cacciari.

Un’idea che nel mondo classico è quasi assente, e che invece pervade la nostra cultura: la giustizia divina vinta dall’amore porta con sé la possibilità di perdonare la colpa, un’idea con cui anche il giudice più ateo deve costantemente fare i conti», ricorda il filosofo. D’altronde l’esercizio della giustizia non può essere solo espressione della volontà di esercitare il potere: «la necessità di giustificare perché si commina una certa pena – non basta dire che si è sempre fatto così o addurre ragioni di sicurezza – emerge nell’ambito stesso del Nomos e del suo esercizio, è indispensabile perché la legge abbia autorevolezza», ricorda Cacciari.

In passato si faceva riferimento a una dimensione religiosa, «ma anche la nascita del diritto costituzionale nel secondo dopoguerra si può collegare all’esigenza da parte del Nomos di ricollegarsi a una dimensione immanente».

L’esercizio della giustizia non può essere solo espressione della volontà di esercitare il potere: «la necessità di giustificare perché si commina una certa pena […]», ricorda Cacciari

Può quindi avere senso, chiede Susanna Arcieri citando il giurista Massimo Nobili, fare riferimento al diritto penale come a una “immoralità necessaria”[1]? O possiamo ipotizzare un paradigma basato su valori diversi dalla punizione e dalla responsabilità, come solidarietà o perdono?

«Qui il discorso cambia direzione», osserva Cacciari: «in base alle considerazioni svolte finora, al costrutto logico ma indimostrabile del libero arbitrio, il diritto penale dovrebbe orientarsi verso forme che, se non escludono, riducono al minimo la limitazione della libertà».

Se ci vediamo come esseri liberi, prosegue il filosofo, «la punizione dovrebbe nascere dal dialogo, dalla rieducazione. Altrimenti ci troviamo di fronte a una contraddizione: un diritto penale fondato sul mettere in galera la gente puzza di un inferno cattivo, non di un inferno logico, dotato di una propria coerenza come quello di Dante».

Se ci vediamo come esseri liberi, prosegue il filosofo, «la punizione dovrebbe nascere dal dialogo, dalla rieducazione. Altrimenti ci troviamo di fronte a una contraddizione»

In chiusura, la discussione ha fatto un balzo in avanti per affrontare, su sollecitazione di Fabio Basile, un tema futuribile, l’ipotetico rapporto con una macchina dotata di coscienza, e quindi destinataria di premi e punizioni.

«In futuro l’intelligenza artificiale dominerà le nostre vite, e si dovrà ragionare sull’imputabilità di certe macchine», sottolinea Cacciari. La domanda è, sarà in grado l’intelligenza artificiale di modificarsi con l’ambiente, di rispondere a domande imprevedibili? «Al momento qualunque forma di intelligenza artificiale è una somma di stati fissi. L’idea di riprodurre in una macchina la mappa delle interconnessioni che compongono la nostra mente è un sogno che esiste da sempre, e forse ci arriveremo».

Ma abbiamo davvero bisogno di ricreare un nostro simile – «sappiamo benissimo come si fa», scherza il filosofo, «e a volte è anche divertente» – o non piuttosto di macchine che obbediscano e ci servano come degli schiavi?

«E in questo caso», conclude Cacciari. «La risposta giuridica è ovvia, il responsabile sarà sempre l’umano che gestisce la macchina e ne controlla le funzioni».

 

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[1] M. Nobili, L’immoralità necessaria. Citazioni e percorsi nei mondi della giustizia, Il Mulino, 2009.

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