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Fascicolo 7-8/2021

Preambolo.

Il problema dell’interpretazione della legge, vale a dire dell’applicazione del precetto legislativo astratto al caso concreto (sillogismo), non può essere considerato analogamente all’interno dei diversi ordinamenti giuridici (ad esempio, in quelli di civil law e in quelli di common law), né lo può essere nel corso del tempo, in quanto esso varia a seconda delle diverse fasi storiche del medesimo ordinamento. Tale problema, infatti, è serio ed ha pesanti ricadute sul piano concreto, andando a costituire, di fatto, quello che viene definito comunemente il diritto vivente.

Del resto, come è noto, il processo interpretativo della legge coinvolge vari “attori” del sistema giuridico, tra i quali i magistrati, che sono chiamati quotidianamente, nelle loro diverse funzioni, a svolgere questo tipo di attività intellettuale che è diretta, più che altro, a ricercare o a integrare il significato che deve essere attribuito all’atto normativo.

Ad ogni modo, come dimostrano da tempo illustri filosofi e studiosi del diritto, il problema dell’interpretazione della legge è fortemente condizionato da una pluralità di fattori: ad esempio, dalla natura stessa del sistema giuridico a cui l’interpretazione si rivolge, dalle trasformazioni economico-sociali e politico-costituzionali che avvengono all’interno di un determinato sistema giuridico, dai mutamenti sociali e culturali che segnano la “vita” del Paese nonché, in particolare, dal modo di operare delle varie fonti del diritto (nazionali e sovranazionali) nei diversi momenti del processo storico generale.

Il problema, comunque sia, è attuale ed insidioso e deve essere costantemente trattato e (ri)messo in discussione. Per questi motivi, DPU intende promuovere le riflessioni sul punto, anche attraverso alcuni “sguardi” fugaci, ma a nostro avviso utili – soprattutto per le nuove generazioni dei cultori e degli operatori del diritto penale –, su quanto scritto in proposito da illustri “esperti” della materia.

Pertanto, proponiamo di seguito un estratto, con qualche elaborazione, del testo di Enrico Ferri, tratto dal volume Principi di diritto criminale. Delinquente e delitto nella scienza, legislazione, giurisprudenza, UTET, 1928, p. 184 ss.

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 45. Interpretazione della legge penale[1].

1. La legge penale, perché alla sua norma generale ed impersonale sia sottoposto l’individuo che l’ha trasgredita, deve essere, caso per caso, applicata dal giudice.

Ed il giudice, per adattare la legge al caso particolare, deve interpretarla.

Il più delle volte la legge è così chiara e precisa che non occorre interpretazione: ma spesso avviene che talune norme di un codice penale o di una legge speciale non siano così evidenti o siano del tutto generiche ed allora è necessaria l’opera interpretativa del giudice, che Cicerone diceva appunto essere lex loquens[2].

D’altra parte, avendo le leggi penali contenuto, oggetto, scopo proprio e diverso da quello delle leggi di diritto privato e pubblico, è evidente che per la loro interpretazione valgono criteri speciali.

2. Il […] problema, a questo proposito, riguarda i limiti di questa facoltà interpretativa del giudice.

Nell’antichità e nel medio evo le stesse leggi penali accordavano al giudice poteri sconfinati, con facoltà di ritenere come delitti anche azioni non previste dalla legge e di applicare anche pene da questa non stabilite. E gli abusi ed inconvenienti furono così tanti e così gravi, che contro di essi si sollevò […] il movimento riformatore iniziato da Beccaria, nel senso di togliere dal giudice qualsiasi latitudine non solo nell’incriminare gli atti umani […] ma anche nell’applicazione al caso particolare della pena stabilita per legge. Ma poiché la realtà è insommergibile, si venne in seguito a riconoscere nel giudice una certa libertà, sia pure coll’obbligo della motivazione per le proprie decisioni, nell’applicazione della legge ai casi individuali […].

L’osservanza delle leggi così come sono, è condizione fondamentale del consorzio civile: «legum servi esse debemus, ut liberi esse possimus». Ed è il mezzo più suggestivo per la loro correzione da parte del potere competente.

Se una legge penale – o sostantiva o processuale – è errata o non corrisponde più alle mutate condizioni sociali, il giudice che, applicandola così com’è, ne mette in evidenza l’iniquità e i danni, compie ufficio ben più utile e retto di chi, colla propria sentenza, pretenda di correggere o cambiare la legge, più spesso in senso benigno ma, potrebbe anche in senso di maggior rigore – portando così fra i cittadini la incertezza su ciò che sia permesso o vietato; cioè frustrando uno dei più caratteristici compiti e risultati della giustizia penale pratica, che è di dare precisione concreta e notorietà quotidiana alle generiche norme del diritto obbiettivo.

3. Il giudice però, per applicare la legge penale […] deve sempre risolvere i cinque problemi pratici, […] e cioè:

  1. se il fatto sia stato commesso;
  2. se tale fatto costituisca reato e vi siano le condizioni di procedibilità;
  3. se l’imputato ne sia stato autore o compartecipe;
  4.  in tal caso, se egli ne sia moralmente responsabile e quindi vi siano le condizioni di punibilità;
  5. quale pena debba essergli applicata secondo legge.

Il primo ed il terzo problema riguardano la valutazione delle prove; ma il secondo ed il quarto ed il quinto implicano l’interpretazione della legge.

Per interpretazione della legge non si può intendere che quella giurisdizionale; giacché quella legale od autentica, è una nuova legge e per ciò «spetta esclusivamente al potere legislativo» […].

4. L’interpretazione dottrinale, non è che una elaborazione di privata attività, che può e deve essere soltanto un utile sussidio all’interpretazione giurisdizionale.

Questa si distingue in letterale e razionale, secondo che chiarisca soltanto nel loro significato le parole della legge oppure di questa ricerchi la ragioni e gli scopi. E poiché l’interpretazione letterale ed interpretazione razionale debbono logicamente andare insieme, il giudice può valersi per esse:

  • dei precedenti storici, che siano comparabili alla moderna fase della giustizia penale come funzione di Stato;
  • dei lavori preparatori, in quanto contribuiscano a precisare l’origine, l’occasione, gli scopi di una data legge;
  • della elaborazione scientifica, in rapporto alla genesi biologico-sociale del delitto, alla bio-psicologia del delinquente, alle condizioni sociali regolate dalla legge penale etc.;
  • della dottrina giuridica in rapporto al delitto, alla pena, al giudizio considerati dal lato giuridico;
  • della giurisprudenza, come autorevole, ma non obbligatoria, precedente interpretazione della stessa legge penale avvenuta in altri processi.

5. Nell’interpretare la legge penale, senza nulla aggiungere ad essa, ma per applicarla nel modo più efficace e rispondente alle necessità della giustizia penale – che sono: a) non condannare gli innocenti e b) non lasciare la società indifesa verso i colpevoli – il giudice non può affidarsi soltanto alla cosiddetta «logica giuridica», ma deve guidare la sua logica coi dati di fatto essenziali ed inseparabili nella giustizia penale. E questi sono:

  • l’indole etico-sociale del fatto (delitto naturale o delitto legale […]);
  • la pericolosità del delinquente; le condizioni di vita sociale […];
  • le circostanze reali e personali del fatto.

Nell’interpretare la legge penale, senza nulla aggiungere ad essa […] il giudice non può affidarsi soltanto alla cosiddetta «logica giuridica», ma deve guidare la sua logica coi dati di fatto essenziali ed inseparabili nella giustizia penale

Il giudice, che è lex loquens e non un fonografo meccanico, di fonte ad una norma di legge che ammette graduatoria di interpretazione sugli elementi costitutivi del reato, sulle condizioni di procedibilità e di punibilità, sulla qualità e misura della pena non può non valutare quei dati di fatto, che si concentrano nella persona giudicabile. E quindi deve dare a tale norma un’interpretazione restrittiva, cioè più favorevole, all’imputato, quando si tratti dei delinquenti meno pericolosi ed una interpretazione estensiva, cioè più favorevole alla difesa sociale, quando si tratti dei delinquenti più pericolosi.

Questa mia affermazione, che ha incontrato l’opposizione anche di qualche positivista, ma che è in pieno accordo coll’indirizzo sperimentale nella giustizia penale, corrisponde anche alla pratica quotidiana, perché il giudice penale non può non sentire le voci dell’umana realtà e di quella «equità» che dal diritto umano in poi si è sempre detto dover essere una guida per la coscienza del giudice […].

Il giudice […] non può non valutare quei dati di fatto, che si concentrano nella persona giudicabile […]. Il giudice penale non può non sentire le voci dell’umana realtà e di quella «equità» che dal diritto umano in poi si è sempre detto dover essere una guida per la coscienza del giudice

6. Dire, col Manzini[3], che con ciò io confondo l’interpretazione coll’applicazione della legge penale, è fare dei giuochi verbali, dacché una determinata applicazione non è che il risultato di una determinata interpretazione: tanto, che lo stesso A. […] deve poi ammettere «la notevole importanza che, per l’interpretazione, ha l’elemento sociolo­gico… perché la legge penale si presenta come un’astrazione priva d’animo e di fondamento positivo per chi ignora i fattori e le reali manifestazioni della delinquenza». E chi ha pratica di tribunali e di assise sa, per esperienza, che non solo i giudici popolari ma anche quelli giurisperiti per tutti cinque i problemi giudiziari dinanzi ricordati sono portati ad un’interpretazione rigorosa o benigna non solo delle prove reali e personali ma anche degli elementi giuridici del delitto e delle relative sanzioni secondo la maggiore o minore atrocità od immoralità del fatto in rapporto alla maggiore o minore perversità e pericolosità del giudicabile […].

7. E dire col Florian[4] che l’interpretazione della legge «è cosa tutta oggettiva, a cui la persona dell’imputato è estranea» è contentarsi di una negazione gratuita, senza dimostrarla… ed è andare a ritroso dell’indirizzo positivo nel diritto penale, che tuttavia egli segue così autorevolmente […].

Dire […] che l’interpretazione della legge «è cosa tutta oggettiva, a cui la persona dell’imputato è estranea» è contentarsi di una negazione gratuita, senza dimostrarla… ed è andare a ritroso dell’indirizzo positivo nel diritto penale, che tuttavia egli segue così autorevolmente […]

8. Dal quotidiano e multiforme lavoro di interpretazione giudiziaria e di interpretazione e critica dottrinale sui difetti tecnici e sui risultati sociali delle leggi penali si determinano nella pubblica coscienza, sotto la suggestione delle condizioni di esistenza sociale in continua trasformazione, quelle aspirazioni che furono perspicuamente chiamate il «diritto latente» e il «diritto in formazione».

L’interpretazione della legge penale, che pur concorre a formare tali aspirazioni, non può non sentirle nella propria coscienza e, pur non oltrepassando i limiti segnati dalla legge vigente, può e deve utilizzarle nella interpretazione delle leggi vigenti.

 

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[1] Il presente saggio di Enrico Ferri, rielaborato e con l’omissione di alcuni passaggi, viene qui riproposto nell’ambito del Programma DPU in quanto ritenuto utile e significativo, anche nel momento attuale, per porsi domande, sollecitare riflessioni e stimolare nuove indagini sull’argomento che auspichiamo possano essere condotte nell’ambito del Cantiere di DPU “Diritto penale e linguaggi”. Come risaputo, Enrico Ferri è stato un giurista-criminologo, un politologo ed un illustre accademico italiano che ha contribuito allo sviluppo della Scuola Positiva del diritto penale.

[2] Significative, a tale proposito, sono le seguenti forme espressive: iudex est lex loquens (il giudice è la voce della legge) e magistratus est lex loquens, lex autem est mutus magistratus (il magistrato rappresenta la legge che parla, viceversa la legge è un magistrato muto).

[3] V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, Vol. 1, UTET, II ed., 1920, n. 137, p. 234.

[4] E. Florian, Trattato di diritto penale, Vol. I, Vallardi, 1926, III ed., § 22, n. 124.

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