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11.09.2019
Alberto Sobrero - Mauro Croce

Intervista a Didier Fassin

Cinque domande a Didier Fassin sul suo ultimo lavoro: Punire. Una passione contemporanea[1]

Fascicolo 9/2019

Cos’è dunque che caratterizza il momento punitivo?
Mi sembra che esso corrisponda a questa specifica congiuntura
in cui la soluzione diventa il problema […].
Il crimine è il problema, e il castigo la sua soluzione.
Con il momento punitivo, è il castigo a diventare il problema […].
Ritenuto ciò che dovrebbe proteggere la società dal crimine,
il castigo appare sempre di più ciò che invece la minaccia.
Il momento punitivo incarna questo paradosso.
 
D. Fassin, Punire. Una passione contemporanea, Feltrinelli, 2018, pp. 11-12

 

Vorrei iniziare dal titolo stesso del suo lavoro[2]. Nel primo capitolo di Punire lei analizza come, nel corso degli ultimi decenni, in numerose società occidentali, in Francia come negli Stati Uniti, il numero di carcerati è aumentato regolarmente (in Francia da 20.000 nel 1955 a 70.000 nel 2016), in rapporto ad una diminuzione dei crimini più gravi. In Italia la situazione è analoga: ad esempio, il numero di omicidi è passato da 3,4 per mille abitanti (1991) a 0,65 (2016) e si può osservare una situazione simile (meno marcata) per i reati contro il patrimonio, mentre la popolazione carceraria, sebbene fluttuante (legge sull’indulto)  è quasi raddoppiata dagli anni settanta. Le cause sono numerose e variano da un paese all’altro: in Italia circa il 30% della popolazione carceraria è responsabile di crimini legati al mondo della tossicodipendenza, ed una percentuale simile è composta da immigrati; ma non vi è alcun dubbio che di fronte alla crescente complessità ed alle sofferenze sociali, la risposta dello Stato è quella che si identifica con il titolo del suo libro: punire.

 Questa sembra da un certo punto di vista una storia che si ripete: una società in crisi – come quella del ‘500 e del ‘600 descritta da Michel Foucault (e da Michel de Certeau – n.d.r.) – anziché mettersi in discussione, non concepisce altro che punire, isolare, moltiplicare i crimini e le frontiere interne ed esterne. Lei pensa che sia possibile proporre questo parallelo? Stiamo assistendo, nella logica della punizione, all’esplosione delle contraddizioni della modernità? Qual è, secondo lei, il futuro del diritto, prossimo e lontano, che si prospetta davanti a noi?

La premessa del libro si intitola “Il momento punitivo”. La parola “momento” rinvia all’idea di periodo storico delle nostre società, ma anche di movimento o di impulso come nell’etimologia latina della parola: momentum. Per quanto riguarda il termine “punitivo”, esso suggerisce che l’aumento della popolazione carceraria e, in senso più ampio, la moltiplicazione delle pene, non sono il risultato di una progressione della criminalità bensì di una maggiore severità, laddove per la maggior parte delle infrazioni gravi si assiste invece a un calo. Assistiamo quindi a una dinamica negativa caratterizzata dall’assenza di collegamento tra crimine e punizione. Il fenomeno interessa tutti i paesi occidentali alla fine dell’800 all’inizio del ‘900, nonostante alcuni, segnatamente quelli della Scandinavia, abbiano conservato dei livelli abbastanza bassi di popolazione carceraria, ed altri, come la Germania ed i Paesi Bassi, abbiano avviato una significativa deflazione repressiva negli ultimi dieci anni. Del resto, il numero di detenuti ed il tasso di incarcerazione non offrono che una idea parziale del momento punitivo, poiché bisogna occorre considerare tutte le persone che sono “sotto le mani della giustizia” ma in contesti di libertà vigilata nell’accezione inglese di “parole” o “probation”. L’insieme rappresenta, ad esempio, 7 milioni di persone negli Stati Uniti e 250.000 persone in Francia.

Questa evoluzione ha due motori principali, uno culturale e l’altro politico. Culturalmente, vi è una sempre minore tolleranza nei confronti delle piccole deviazioni dalla norma: come in Francia, dove si è iniziato a penalizzare la presenza di gruppi di persone negli atri delle abitazioni perché ostacolano il passaggio dei residenti. Politicamente, è l’escalation di populismo penale che fornisce una risposta repressiva alle ansie dei cittadini, spostando le loro legittime inquietudini riguardo al lavoro, agli alloggi, o al futuro dei figli, verso il timore dell’altro o verso la paura del crimine. Ma questi due fenomeni – culturale e politico – confluiscono associandosi efficacemente solo perché riguardano determinate categorie, ossia gli ambienti popolari, in particolare quelli composti da gruppi di immigrati. Al pari dei delitti che vengono loro rimproverati, proprio queste categorie vengono considerate indesiderabili.

Il parallelo con altri momenti della storia, che lei suggerisce, è interessante. La prigione nasce, come scrive Michel Foucault, in un periodo, il ‘700 e poi soprattutto l’800, ove l’aumento delle disuguaglianze produce classi lavoratrici miserabili che sono viste e denunciate, secondo la formula di Louis Chevalier, come classi pericolose. Il paradosso sta nel fatto che la creazione di questa nuova forma di punizione, che vorrebbe essere più umana in quanto evita la violenza esercitata direttamente sul corpo, e più equa in quanto graduata in funzione della gravità del crimine, conformemente a quanto raccomandato da riformatori come Cesare Beccaria, permette in realtà di applicare la pena a un numero considerevolmente più elevato di persone, che sono prevalentemente, come ha dimostrato Michelle Perrot, operai poveri. Molto più dell’addolcimento delle pene (le esecuzioni capitali erano rare) è stata osservata una estensione del dominio della punizione.

Si ritrova oggi la stessa maniera di gestire, attraverso il sistema penale, quella che in passato veniva chiamata “la questione sociale”. Nonostante le disparità economiche non cessino di aumentare, come i lavori di Thomas Piketty hanno dimostrato, la risposta politica poggia sempre più sullo “Stato penale”, che fa ricorso alla polizia, sollecita i giudici, ed infine rinchiudei condannati, e sempre meno sullo Stato sociale, le cui risorse diminuiscono sotto l’ingiunzione del neoliberalismo.

Pertanto, più che individuare in questa evoluzione le contraddizioni della modernità, occorre probabilmente riconoscervi una certa coerenza della logica punitiva che è messa in atto nei confronti delle popolazioni rese più fragili dalla precarietà economica, dalla marginalizzazione territoriale e dalla discriminazione razziale.

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Nel primo capitolo del suo testo, intitolato Che significa punire, lei ha sottoposto ad una critica serrata i cinque criteri che, secondo Herbert L.A. Hart, stanno alla base del concetto di punizione. La pena deve implicare delle sofferenze; deve essere la reazione a una violazione delle norme giuridiche; deve applicarsi a coloro che hanno commesso il reato; deve essere amministrata da persone estranee alla violazione; deve essere imposta da un’autorità legalmente riconosciuta. Se si considera il tipo di punizione per eccellenza, il carcere, si può aggiungere che la pena dovrebbe essere riabilitativa, dovrebbe salvaguardare la società, dare l’esempio, etc. Il metodo etnografico su cui si basa il suo lavoro testimonia la fragilità di questi criteri, con l’eccezione del primo: la pena deve produrre sofferenza. La situazione è cambiata rispetto al passato medievale, eppure, come lei ha evidenziato, il termine “pena” in francese ed in italiano mantiene ad un tempo l’idea di punire e quella di soffrire, diversamente da quanto avviene per la lingua inglese (penalty, pain). La stessa identificazione (punire = soffrire) si sta sempre più diffondendo nel “senso comune” contemporaneo. Questo rende difficile distinguere l’idea di punizione dall’idea di vendetta sociale.

La sua ipotesi è che la pena inflitta abbia una genealogia profonda nella società occidentale, al punto da ricordare l’idea cristiana (in particolare cattolica) della sofferenza (penitenza) come possibilità di salvezza. Ma, allo stesso tempo, e anche in questo caso, ci si domanda se questa identificazione non metta in crisi le premesse e le presunzioni del diritto moderno. Ad esempio, non crede che questo meccanismo (pena-punizione-vendetta) possa essere all’origine (e giustificarla) di una tendenza a vendicarsi da soli? Io penso, nel caso dell’Italia, alla recente legge sulla “legittima difesa”, alla possibilità per un privato cittadino di organizzare la propria difesa.

Sembra che la nostra società sia passata dal fare ricorso a forme giuridiche quali la restituzione o l’indennizzo, frequenti nelle società tradizionali ed “etnologiche” e nelle stesse società medievali, a istituti giuridici “vendicativi”. Si può dire, secondo lei, che l’immagine tradizionale del progresso giuridico, alla quale credeva ancora Durkheim, sia quasi rovesciata? O perlomeno che la crisi del diritto ci obbliga anche a rivedere una storia lineare del diritto? O ancora: esiste una relazione tra questa situazione e l’ondata autoritaria che attraversa il mondo occidentale?

Se si confronta la definizione normativa, che ha certamente ragione d’essere per definire ciò che dovrebbe essere la punizione, con una osservazione empirica, quale io ho potuto condurre nel corso dei miei lavori etnografici sulla polizia, sulla giustizia e sul sistema carcerario, ci si rende conto che quasi tutto ciò che dovrebbe essere non può essere: possiamo ricorrere a strumenti extra-legali persone che non abbiamo alcun modo di sapere se siano colpevoli o che, addirittura, sappiamo non esserlo, e talvolta senza neppure che sia stata commessa un’infrazione. La sola dimensione della punizione che resiste alla prova dei fatti è l’inflizione di sofferenza. Punire è far soffrire, vuoi con la frusta, vuoi con l’amputazione o con la reclusione. La cosa è così evidente che non è nemmeno messa in discussione. Per Durkheim, la punizione è una vendetta socializzata: la società impone la sofferenza che la vittima o la sua famiglia vorrebbero infliggere. Di fatto, molto spesso, non vi è altra vittima che la legge, la quale non è che una produzione umana. Colui che rivende una piccola quantità di cannabis in strada non fa delle vittime, tanto più perché il prodotto è legalmente in vendita in un numero crescente di stati. Ma è Nietzsche che meglio comprende ciò che è qui in discussione, allorché afferma che la punizione ha come fondamento il piacere di far soffrire. È sufficiente ascoltare la requisitoria di un procuratore in un tribunale, vedere dei poliziotti mettere volontariamente le manette al contrario per causare dolore, o ancora constatare come un agente di polizia penitenziaria ostentatamente autorizzi una doccia ad un detenuto e la neghi a un altro, per comprendere il piacere che si prova nel punire (mi riferisco qui ad episodi che ho potuto osservare durante le mie ricerche).

La sola dimensione della punizione che resiste alla prova dei fatti è l’inflizione di sofferenza. […] La società impone la sofferenza che la vittima o la sua famiglia vorrebbero infliggere. Di fatto, molto spesso, non vi è altra vittima che la legge, la quale non è che una produzione umana

Eppure la risposta ad una violazione della legge, che si tratti di un furto o di un omicidio, non è stata sempre e dappertutto l’inflizione di una sofferenza. È addirittura l’opposto. L’equivalenza tra un atto deviante ed un dolore imposto è, per così dire, un’invenzione recente nel mondo occidentale. Nelle società tradizionali, precoloniali, e nelle società antiche, ad esempio a Roma, la risposta sociale alla violazione della legge era la riparazione. Bisognava compensare la perdita. Etimologicamente, come ci insegna Emile Benveniste, il termine greco poinē ed il suo equivalente latino poena significavano la compensazione che doveva essere portata per riparare l’atto commesso. Se ne trova traccia negli studi storici svolti da Georg Simmel sull’alto Medioevo, in Inghilterra ad esempio, dove veniva fissato un prezzo a titolo di indennizzo nei confronti della famiglia della vittima di un omicidio, o ancora negli studi etnologici delle società precoloniali, come quelli condotti da Leopold Pospisil in Papuasia-Nuova Guinea. È la sostituzione della legge germanica, fondata appunto sul principio di riparazione dei delitti e dei crimini, con la legge romana che, sotto l’influenza soprattutto della Chiesa, introduce nella società medioevale l’individualizzazione della colpa, e persino il peccato, con la necessità della sofferenza per espiarlo. Molto tempo dopo, con la colonizzazione, questa stessa logica verrà introdotta in società che avranno estrema difficoltà ad accettare l’imposizione di una pena e la prigione come punizione.

Occorre quindi comprendere bene ciò che implica l’instaurarsi di un’economia morale della sofferenza in sostituzione dell’economia morale della riparazione: da una parte, l’esercizio della vendetta al posto di una pratica di compensazione e, dall’altra, la responsabilità individuale, quella del presunto colpevole, al posto della responsabilità collettiva, quella del clan o della famiglia. Rendersi conto di questa evoluzione antropologica nell’ordine morale delle società, può forse fornirci gli strumenti per pensare altrimenti la questione della punizione.

Occorre quindi comprendere bene ciò che implica la sostituzione di una economia morale della sofferenza con una economia morale della riparazione: da una parte, l’esercizio della vendetta al posto di una pratica di compensazione e, dall’altra, la responsabilità individuale, quella del presunto colpevole, al posto della responsabilità collettiva, quella del clan o della famiglia. Rendersi conto di questa evoluzione antropologica nell’ordine morale delle società, può forse fornirci gli strumenti per pensare altrimenti la questione della punizione

Perché e chi è punito? I criminali, certamente, i membri delle organizzazioni criminali, i responsabili di crimini gravi contro le persone, contro le cose, contro il bene comune, contro la sicurezza sociale. Ma sempre di più, in una società complessa e globalizzata, le carceri sono piene di soggetti deboli, i vinti, gli “altri”, coloro i quali per una ragione o per l’altra non sono in grado di sostenere la lotta sociale. Disoccupati, giovani senza un progetto di vita, immigrati. Più la società è competitiva, meno sicurezze abbiamo intorno a noi (famiglia, istruzione, lavoro), e più è facile cadere. Sebbene le statistiche mostrino che il consumo di droga è pressoché simile tra i giovani delle diverse classi sociali, il numero di detenuti per droga è molto più elevato tra i giovani delle classi povere che tra quelli delle classi abbienti. Da un certo punto di vista questo è inevitabile. Ma, come ha scritto Voltaire, la società ha i nemici che si crea. «Spegnete i fuochi e le streghe spariranno». E, di fronte all’impotenza politica, sta al giudice decidere quale chiave possa rompere il circolo vizioso. La legge sembra essere sempre più importante, ma anche sempre meno preparata.

In questa società, come lei osserva, tutti possono sentirsi fragili e pensare: «io stesso avrei potuto cadere». Per sentirci vincitori abbiamo bisogno di un nemico vinto. La politica, una cattiva politica, vive di questo meccanismo. Bisogna moltiplicare i colpevoli per produrre gli innocenti. Produrre dei colpevoli ci fa sentire nel giusto.

Nelle pagine finali, lei anticipa le critiche (in gran parte prevedibili ed effettivamente spesso sollevate) al suo libro: critiche di irenismo e di elitismo. Vi si possono ravvisare posizioni benpensanti (oggi, in Italia, si direbbe posizioni “buoniste”). Ma, come lei scrive, tutto si può dire del suo lavoro, tranne questo. Il suo è un invito a ritornare ad una riflessione critica (e politica) sul «valore dei nostri valori». Si tratta di pensare che le difficoltà del diritto penale non sono solo un problema di disciplina; si tratta di invitare a ripensare l’ordine della vita comune, in una società sempre più complessa, globale e differenziata. Non è un compito facile. L’importante era gettare il sasso nello stagno. Posso chiederle se prevede un nuovo contributo in questa direzione?

I filosofi ed i giuristi sono poco interessati alla distribuzione della pena poiché, da un punto di vista normativo, la questione è semplice: la pena deve essere proporzionata all’infrazione e ripartita equamente nella popolazione. Ma nella realtà le cose stanno diversamente. In Francia, negli anni 2000, che corrispondono agli anni durante i quali Nicolas Sarkozy è stato Ministro dell’Interno e quindi Presidente della Repubblica, il numero di persone dietro le sbarre è aumentato del 52%. Se si esamina la distribuzione delle condanne, si osserva un aumento del 255% per quanto riguarda il semplice uso di stupefacenti, quasi sempre di cannabis, ed una diminuzione del 29% per quanto riguarda violazioni nell’ambito della disciplina societaria. Orbene, gli studi epidemiologici dimostrano che non vi è una progressione nel consumo di droga, mentre le indagini di polizia indicano al contrario uno incremento dei tassi di criminalità economica e finanziaria. L’evoluzione delle condanne rispecchia quindi interamente l’evoluzione politica: pene più severe per i consumatori di cannabis e trattamento più mite per i casi di evasione fiscale e di corruzione. Altrettanto significativamente, negli Stati Uniti, fino ad un recente periodo, la quantità di crack in grado di portare ad una condanna carceraria era di 100 volte inferiore a quella della cocaina in polvere, nonostante i due prodotti abbiano gli stessi effetti, con la differenza che, però, il primo è essenzialmente consumato nei quartieri abitati da neri poveri e il secondo soprattutto in contesti caratterizzati da un tenore economico e culturale elevato.

La distribuzione della pena rispecchia quindi non tanto l’andamento della criminalità quanto la scelta di punire determinate infrazioni piuttosto che altre. Questa scelta non è tuttavia socialmente neutrale. In Francia, astenendosi dal sanzionare i fatti di criminalità economica e finanziaria, si proteggono i ceti sociali più elevati e le imprese. Al contrario, sanzionando le violazioni della disciplina sugli stupefacenti, si indirizza la repressione verso i giovani, di sesso maschile, delle classi popolari poiché la polizia ha il compito di concentrare su di essi il proprio operare, nonostante i lavori dei ricercatori mostrino come il consumo di droghe sia lo stesso nei diversi ambienti. In altri termini, ciò che la società sceglie di punire non sono solo determinati delitti, sono anche e soprattutto determinati autori di questi delitti. Si tratta di determinare quali sono le popolazioni punibili. Non sorprende che queste popolazioni siano costituite da comunità popolari di origine immigrata. Il risultato è che, nell’istituto penitenziario in cui ho condotto per quattro anni uno studio, la metà dei detenuti erano senza professione e senza impiego, un quarto di loro erano operai e solo l’1% era composto da dirigenti; i detenuti appartenevano per tre quarti a una minoranza, per un terzo erano neri e per un terzo arabi. Questa distribuzione è il prodotto di una selezione dei delitti punibili e degli individui punibili nell’intero corso della catena penale, che si inserisce nello spazio pubblico rappresentato dall’intervento dei media e della politica, e che prosegue attraverso l’opera del legislatore, della polizia e del sistema di giustizia.

La distribuzione della pena rispecchia quindi non tanto l’andamento della criminalità quanto la scelta di punire determinate infrazioni piuttosto che altre. Questa scelta non è tuttavia socialmente neutrale [….]. Ciò che la società sceglie di punire non sono solo determinati delitti, sono anche e soprattutto determinati autori di questi delitti

Fare questo tipo di analisi non significa adottare una posizione irenica e negare la delinquenza e la criminalità negli ambienti popolari. Significa ricordare che, in relazione al contesto sociale, il tipo di delitto commesso varia: il giovane che vive in una casa popolare non evade le tasse più di quanto un imprenditore fumi cannabis per strada. Non è allora fuori luogo domandarsi quale delle due violazioni abbia delle conseguenze più dannose per la società e meriterebbe maggiore severità, il che non necessariamente implicherebbe, d’altronde, il ricorso alla detenzione. La funzione che io riconduco al mio lavoro non è comunque quella di dare lezioni. È piuttosto quella, in primo luogo, di consentire la conoscenza di fenomeni spesso ignorati o deformati: è ciò che mi ha portato a realizzare il primo studio, lungo un periodo di quindici mesi, sull’attività della polizia nei quartieri popolari. In secondo luogo, è quella di offrire una riflessione critica di cui potranno beneficiare varie tipologie di destinatari: in sostanza spetta ai cittadini, ai professionisti ed ai politici farsi carico di queste questioni.

Solo ora La raison humanitaire è stato tradotto in italiano[3]. E inevitabilmente i due libri sono stati letti insieme. Ma vent’anni sono passati e la situazione politica è cambiata profondamente. All’inizio degli anni 2000, si trattava per lei di comprendere la ragione umanitaria nel momento in cui era diventata una parte concreta della politica. Oggi, molti dei suoi lettori hanno giudicato il libro una grande illusione.

La ragione umanitaria sembra cedere ovunque il passo ai governi “sovranisti”, ai principi di sicurezza, alla Ragione di Stato. Gli equilibri da lei auspicati sono molto difficili, se non impossibili da realizzare. In Italia assistiamo alla lotta politica (quotidiana e dominante) tra “chiudere i porti” ed “aprire i porti”. Alle frontiere dell’Europa e negli Stati Uniti… il patrimonio religioso stesso sembra essere disperso. Sfortunatamente, non so se si possa ancora dire, come nel suo libro, che l’umanitarismo è una “forza potente”.

L’umanitarismo ci ha permesso di sentirci generosi, ma siamo generosi fino a un certo punto… ci fermiamo prima di andare a toccare i nostri interessi. Solo ora ho letto Ragione umanitaria e, purtroppo, mi sembra lontano da ciò che si vive oggi. Ad esempio, la nuova proposta del Ministro Salvini prevede un’ammenda di 5.500 euro per ogni migrante salvato in mare. Sono io pessimista o è lei troppo ottimista? Scriverebbe oggi lo stesso libro?

Il collegamento che lei fa tra i due libri è molto pertinente. Ho scritto Ragione umanitaria all’inizio degli anni 2000 raccogliendo una serie di inchieste che avevo condotto principalmente nel corso del decennio 1990, sul modo in cui la questione dei poveri, dei disoccupati, degli immigrati irregolari e dei richiedenti asilo veniva trattata in Francia, e sul modo in cui venivano posti i problemi legati ai traumi nei territori palestinesi occupati, degli orfani da AIDS nell’Africa australe o a seguito degli interventi umanitari in Iraq. Non si trattava di una prospettiva teleologica: non descrivevo un’evoluzione ineluttabile verso una “umanitarizzazione” del mondo. Il sottotitolo del libro era, io credo, esplicito: Una storia morale del presente. Analizzavo da un punto di vista storico un momento umanitario, allo stesso modo in cui, successivamente, ho parlato di un momento punitivo. Del resto, quando l’editore francese del libro ha deciso di ripubblicarlo, ho aggiunto una postfazione intitolata Segno dei tempi, nella quale analizzavo lo scivolamento dall’umanitario al securitario come elemento dominante del periodo contemporaneo. Il modo in cui l’Unione Europea, e l’Italia in particolare, affronta il dramma dei naufragi nel Mediterraneo è da questo punto di vista tristemente rivelatore. In pochi anni, si è passati da una risposta umanitaria fondata su una logica compassionevole nei confronti di coloro che annegano provando a fare la traversata verso l’Europa (quella che è stata l’operazione Mare Nostrum nel 2013 e 2014, un segnale incoraggiante) a una politicizzazione delle frontiere ed una criminalizzazione dell’umanitario (soprattutto a partire dal 2018, con l’interdizione di attraccare rivolta all’Aquarius con i suoi 629 superstiti a bordo). Il governo italiano ha cinicamente sfruttato questa situazione, ma il governo francese non si è dimostrato più accogliente, e questo episodio ha fatto precipitare l’evoluzione securitaria delle politiche europee in materia di immigrazione e di asilo.

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Per rispondere precisamente alla sua domanda, quanto ho descritto all’inizio degli anni 2000 come l’avvento di una ragione umanitaria, che si presentava attraverso il ruolo crescente dei sentimenti morali nella motivazione dei politici (della politica?), compreso quando si trattava di lanciare operazioni militari come quelle in Iraq nel 2003 o in Libia nel 2011, corrispondeva ad un momento storico ove l’appello alla compassione poteva mobilitare l’opinione pubblica. Come mi spiegava alcuni anni fa il presidente della Commissione per le relazioni internazionali al Congresso degli Stati Uniti a proposito dell’AIDS, oggi la compassione nei confronti degli sfortunati che muoiono di questa malattia in Africa non funziona più: bisogna parlare di pericolo per la sicurezza del mondo.

In Italia, l’antropologia ha avuto un’influenza sulla costruzione giurisprudenziale solamente in soli due momenti storici: nel dopoguerra, contribuendo alla revisione dei codici fascisti (eliminazione delle leggi razziali, introduzione dei diritti del lavoro, riforma agraria, ecc.) e tra gli anni sessanta-settanta, nel contesto delle lotte per i diritti civili (questione femminile, liberazione sessuale, divorzio, ecc.). Oggi, sembra essersi creato un profondo divario tra le scienze sociali e la politica. La politica non è mai stata così indifferente agli studi sociali come oggi. Il lavoro antropologico, in questo come in altri casi (antropologia urbana, antropologia medica, cooperazione, etc.) è quello di proporre una antropologia critica quale strumento per una politica diversa, un ponte in grado di connettere la ragione di Stato e la Ragione umanitaria. In questo spirito noi leggiamo Punire. Ritiene che la riflessione antropologica sui processi migratori abbia un’influenza sulla politica francese? I suoi lavori suscitano in Francia un dibattito nell’ambito del diritto penale?

L’atteggiamento dei politici nei confronti delle scienze sociali è, come lei dice, spesso caratterizzato da diffidenza, ignoranza e disprezzo, e questo, curiosamente, non solo da parte dei governi di destra, ma anche, talvolta, di quelli di sinistra. Dalle due sponde dell’Atlantico, abbiamo ascoltato responsabili politici di alto profilo descrivere le analisi dei sociologi in termini di scuse sociologiche – come se la spiegazione dei fenomeni valesse quale giustificazione dei fatti. Sembra chiaro che i populismi contemporanei, quelli apertamente manifestati dai vari Trump e Salvini, come quelli più sottilmente espressi da leader come Blair e Macron, non sono aperti ad un dialogo con le scienze sociali e ad una riflessione antropologica sull’evoluzione dei nostri sistemi punitivi. Traggono un vantaggio troppo grande dalle loro fanfaronate e dalla loro politica repressiva per rinunciare a ciò che assicura la loro vittoria elettorale, sia pure al prezzo della giustizia e della pace sociali.

In compenso, mi pare che il mondo giudiziario, avvocati e giudici, come pure il contesto dell’ordinamento penitenziario, agenti penitenziari ed operatori sociali, siano più attenti al modo in cui i ricercatori possono aiutarli a porre i problemi. I nostri contributi sono sicuramente modesti. Tuttavia essi esistono. In Francia, insegno ogni anno alla Ecole nationale de la magistrature, sono spesso invitato a parlare negli istituti penitenziari ed ancora più spesso di fronte a un pubblico sensibile a queste tematiche; inoltre faccio parte del Conseil scientifique du Contrôleur général des lieux de privation de liberté, ente indipendente che si occupa di condurre inchieste nelle carceri e di formulare raccomandazioni rivolte alle autorità. Negli Stati Uniti sono stato invitato a partecipare a una commissione per la riforma del sistema penale e penitenziario nello stato del New Jersey, voluta dal governatore e presieduta dalla ex presidente della Corte Suprema dello Stato, con l’obiettivo di ridurre i tassi della popolazione carceraria e della sua ineguale distribuzione socio-razziale.

Ma, in termini più generali, mi sembra che i ricercatori in scienze sociali possano assumere, insieme ad altri attori della società civile, dai giornalisti ai militanti per i diritti umani, un certo ruolo nelle trasformazioni della rappresentazione dei fatti, che possa contribuire ad un cambio di prospettiva sul mondo. Essi in effetti offrono un contro-discorso ed una visione alternativa a quella di governanti raramente aperti ad un pensiero critico o persino a soluzioni ovvie. Mi è capitato spesso di spiegare davanti ai media che più severità significa più insicurezza (come tutti gli studi internazionali dimostrano). Ma quale responsabile politico, in Francia o in Italia ad esempio, avrebbe il coraggio di sostenere pubblicamente una tale affermazione e di agire di conseguenza?

Più severità significa più insicurezza […]. Ma quale responsabile politico, in Francia o in Italia ad esempio, avrebbe il coraggio di sostenere pubblicamente una tale affermazione e di agire di conseguenza?


 

[1] Intervista di Alberto Sobrero, traduzione di Mauro Croce.

[2] D. Fassin, Punire. Una passione contemporanea, Feltrinelli, 2018.

[3] D. Fassin, Ragione umanitaria. Una storia morale del presente, DeriveApprodi, 2018.

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