Fascicolo 2/2021

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«I progressi nella biologia della mente offrono la possibilità di un nuovo umanesimo in grado di fondere le scienze che studiano il mondo naturale con le scienze umane, che si occupano del significato dell’esperienza umana.
Questo nuovo umanesimo scientifico, basato in buona parte su intuizioni biologiche relative alle differenze nelle funzioni cerebrali,
cambierà radicalmente il modo in cui ci consideriamo e ci vediamo l’un l’altro.
Ciascuno di noi già si sente unico, grazie alla propria coscienza di sé,
ma avremo l’effettiva conferma biologica della nostra individualità.
Questo, a sua volta, porterà a nuove intuizioni sulla natura umana
e a una comprensione e apprezzamento più profondi sia della nostra umanità condivisa
sia della nostra umanità individuale»[1]

L’essere umano è libero?

 

Che cos’è la coscienza, e dove si trova?

 

Come funziona la mente umana?

 

Che cosa guida il nostro comportamento, la ragione o l’emozione?

 

Che cosa giustifica la possibilità di muovere un rimprovero, e poi applicare una pena, ad un altro essere umano per la condotta da lui tenuta?

Sono domande senza tempo, che fin dall’inizio della cultura occidentale impegnano gli studiosi di filosofia, scienze della mente, scienze del cervello, e ovviamente gli studiosi di morale e di diritto, ma che purtroppo da troppo tempo non interessano più il diritto penale.

Eppure, da queste domande, e dalle rispettive risposte, discendono conseguenze immani per tutti i protagonisti del «dramma del processo penale», giudice, reo e vittima, perché è proprio da esse che dipende la validità stessa dell’immagine di essere umano – un soggetto imputabile, suscettibile di un rimprovero di colpevolezza, e quindi legittimamente punibileche il diritto penale presuppone.

Per quanto il dibattito sulla libertà dell’individuo non abbia mai conosciuto una tregua nella storia umana, oggi più che in passato – in virtù dell’avvento e del successivo rapido sviluppo delle neuroscienze –, la tradizionale adesione, quasi fideistica, al principio della libera autodeterminazione dell’uomo è sempre più seriamente minacciata dall’evidenza scientifica.

La fondamentale missione del Cantiere Aperto su Imputabilità, colpevolezza e libero arbitrio è allora quella di portare finalmente questi problemi e queste domande anche al centro del dibattito penalistico, nella profonda convinzione che – riprendendo un pensiero espresso da Massimo Cacciari durante la sua recente conversazione con DPU – non vi possa essere conoscenza alcuna, in qualunque disciplina o settore, che non prenda le mosse dallo studio della biologia dell’uomo, del nostro corpo e del suo funzionamento; in definitiva, da quello che siamo. 

Presentiamo dunque, di seguito, alcuni primi punti di partenza che orienteranno i futuri lavori del Cantiere, individuati grazie al contributo sino ad ora offerto dagli illustri scienziati, studiosi e accademici già interpellati da DPU su questi temi.

 

1. Il nostro codice penale dà esplicito rilievo alla “coscienza” della condotta, la cui presenza sembrerebbe addirittura costituire requisito fondamentale della stessa possibilità di punire: “nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà”, recita infatti il comma 1 dell’art. 42 c.p.

Che cosa è, però, la coscienza?

E come se ne accerta la presenza?

Né la legge penale, né la dottrina penalistica, nonostante accurati studi e ricerche[2], sono finora state in grado di darci risposte definitive in proposito; nel frattempo, comunque, la psicologia e la filosofia ci avvertono che «sarebbe necessario riconoscere, scientificamente, che ogni azione conscia è solo la punta dell’iceberg di un immenso inconscio».

Anche se riuscissimo a capire che cos’è la coscienza, rimarrebbe, quindi, il mistero dell’incoscienza: di quella parte – forse la gran parte – della vita mentale dell’individuo che si svolge, in realtà, fuori dalla coscienza, dal momento che solo un numero esiguo  delle informazioni processate dal cervello umano affiora in realtà alla coscienza.

Né la legge penale, né la dottrina penalistica, nonostante accurati studi e ricerche, sono finora state in grado di darci risposte definitive in proposito; nel frattempo, comunque, la psicologia e la filosofia ci avvertono che «sarebbe necessario riconoscere, scientificamente, che ogni azione conscia è solo la punta dell’iceberg di un immenso inconscio»

Le nuove conoscenze acquisite in merito alle correlazioni tra processi cognitivi/emotivi e meccanismi neurali hanno fondato empiricamente l’intuizione di Freud sull’esistenza dell’inconscio e questa evidenza – certamente spiazzante per l’immagine che ciascuno di noi ha di se stesso – dovrebbe sconquassare anche le consolidate convinzioni dei penalisti.

Il problema – sia chiaro – è immane.

L’intera cultura occidentale si fonda, infatti, sulla coscienza: basti pensare all’influenza sul pensiero occidentale degli ultimi duecento anni esercitata dall’elaborazione di Kant sulla coscienza quale sede della legge morale naturale: ma se “cade” la coscienza, “cade” anche l’idea di responsabilità per violazione della legge morale naturale.

Il diritto penale attuale è ben lungi dall’essersi accomiatato da Kant. L’idea retributiva della pena è tuttora la base – troppo spesso rimossa – del diritto penale e non è facile giustificare la retribuzione senza la colpevolezza, almeno come non è facile giustificare la colpevolezza senza la libertà.

L’idea retributiva della pena è tuttora la base – troppo spesso rimossa – del diritto penale e non è facile giustificare la retribuzione senza la colpevolezza, almeno come non è facile giustificare la colpevolezza senza la libertà

2. Almeno per il diritto penale, distinta e autonoma dalla coscienza è poi l’imputabilità, vale a dire, ai sensi dell’art. 85 c.p., la «capacità di intendere e di volere». Della stessa, tuttavia, in ambito penalistico si forniscono perlopiù definizioni tautologiche, sicché rimane aperta una questione fondamentale:

Che cosa è questa capacità?

E in che misura possiamo riconoscere questa capacità a prescindere dalla previa verifica dell’esistenza del libero arbitrio?

Rispetto alla questione del libero arbitrio – «la questione più dibattuta di tutta la metafisica» come la definiva Hume[3] – la dottrina penalistica, dopo le scintille dello scontro tra Scuola Classica e Scuola Positiva, si era assestata, fino a qualche anno fa, su una posizione intermedia (se non neutrale)[4] tra “determinismo” e “indeterminismo”.

Si era, infatti, preso atto del fatto che, se una volontà libera, intesa come libertà assoluta di autodeterminazione ai limiti del puro arbitrio, non esiste, l’idea di una libertà, invece, “relativa” o “condizionata” risulterebbe perfettamente funzionale agli scopi regolativi del diritto penale:

«La vita pratica di ogni giorno poggia sul presupposto, implicitamente ammesso, che ciascuno di noi sia abbastanza capace di regolare la propria condotta in modo da non disattendere le aspettative degli altri: realtà o illusione, ciascuno vive come esperienza psicologica il sentimento della libertà di autodeterminarsi in modo conforme alle scelte e ai desideri. È di qualcosa di simile che il moderno diritto penale si appaga. Esso cioè assume la libertà del volere non come un dato ontologico, ma come un necessario presupposto della vita pratica; non come un dato scientificamente dimostrabile, bensì come contenuto di un’aspettativa giuridico-sociale»[5].

Ciò sembra voler dire che, di fatto, la libertà esiste perché esiste un diritto penale, che di questa libertà ha necessità. Si tratta di una soluzione all’apparenza capace di neutralizzare l’immane problema, poiché consente di non affrontare frontalmente la questione della libertà e quindi della possibilità stessa di muovere fondatamente un rimprovero di colpa ad un uomo.

Una soluzione che, però, ci pare tutt’altro che appagante.

Se infatti il concetto “pratico” di libertà – indubbiamente utile per giustificare la ragion d’essere stessa del diritto penale e delle sue categorie – in quanto tale non ha in sé alcun valore “ontologico” (come, in effetti, si finisce con l’ammettere), vuol dire che un referente empirico di quel concetto potrebbe anche non esistere, e quel concetto essere una mera – e, si può aggiungere, comoda – finzione.

Basta così poco per fondare il diritto penale stesso, che è, alla fine, la modalità con la quale la società ammette l’uso della coercizione, cioè della violenza dell’uomo sull’uomo?

Si era […] preso atto del fatto che, se una volontà libera, intesa come libertà assoluta di autodeterminazione ai limiti del puro arbitrio, non esiste, l’idea di una libertà, invece, “relativa” o “condizionata” risulterebbe perfettamente funzionale agli scopi regolativi del diritto penale

3. Il codice penale, se non definisce in positivo che cos’è l’imputabilità, sembrerebbe perlomeno fornire alcune indicazioni utili sulle circostanze, sulle situazioni, sugli stati che la escludono, annientando la capacità di intendere e di volere.

Ma tali indicazioni “in negativo” si rivelano, a ben vedere, tutt’altro che affidabili e scientificamente fondate: a partire dagli artt. 88 e 89 c.p. che connotano l’infermità mentale in termini di “vizio”, quasi ad esprimere una valutazione morale negativa per l’autore di un fatto di reato affetto da una patologia mentale.

Se è incerto che cosa sia la capacità di intendere e di volere, non può che essere incerto anche quali siano le condizioni in presenza delle quali siffatta capacità venga meno.

Che cos’è patologia mentale?

Il diritto penale ha preso atto del fatto che l’intera psicologia scientifica è alle prese – nella riflessione relativa alle patologie mentali – con un cambio di paradigma epocale fondato sull’evoluzionismo, sull’inconscio e sulla centralità delle emozioni, sistemi cerebrali antichissimi ormai ben identificati e localizzati nel cervello?

Anche la nosografia prima consolidata dei disturbi della personalità – e già era dubbio se fossero o non fossero patologia mentale – è in via di radicale ripensamento.

Se è incerto che cosa sia la capacità di intendere e di volere, non può che essere incerto anche quali siano le condizioni in presenza delle quali siffatta capacità venga meno

4. Nelle disposizioni codicistiche dedicate all’imputabilità, alla sua sussistenza o alla sua esclusione, troviamo poi numerose “finzioni”, numerose forzature della realtà (l’autore del reato in realtà non era capace di intendere e di volere, ma viene trattato “come se” fosse tale), imposte dal legislatore fascista (mai rimosse dal legislatore successivo e solo in parte corrette dalla giurisprudenza più coraggiosa), come quelle relative agli effetti del consumo di alcool e di stupefacenti e, in particolare, alla scivolosissima distinzione tra «dedizione al consumo» (art. 94 c.p.) e «cronica intossicazione» (art. 95 c.p.).

Urge, pertanto, una rivisitazione dell’attuale disciplina normativa in tema di dipendenze, in primis delle tossicodipendenze, e un ripensamento, altresì, delle norme che, in via diretta o indiretta, incriminano tali dipendenze, così ponendo ulteriori, talora insormontabili ostacoli al superamento delle stesse.

Urge […] una rivisitazione dell’attuale disciplina normativa in tema di dipendenze, in primis delle tossicodipendenze, e un ripensamento, altresì, delle norme che, in via diretta o indiretta, incriminano tali dipendenze, così ponendo ulteriori, talora insormontabili ostacoli al superamento delle stesse

Tale rivisitazione non potrà che avvenire alla luce delle acquisizioni fornite dalla miglior scienza disponibile. Ecco, allora, che sulle pagine di questa rivista abbiamo già intrapreso un serrato confronto sulle tossicodipendenze con neurologi, psichiatri, neuroscienziati, psicologi, che ci ha consentito di muovere i primi passi rivolti a:

i) approfondire, prima di tutto, i concetti stessi di “dipendenza” e “addiction, dal punto di vista giuridico e clinico, previa analisi dell’immensa letteratura scientifica che vede contrapposti coloro che sostengono la riconducibilità della tossicodipendenza a una vera e propria patologia (addirittura una “malattia del libero arbitrio”) a coloro che, viceversa, negano l’attitudine delle droghe a produrre effetti dannosi sull’organismo umano, se non in rarissimi casi;

ii) osservare più da vicino i contenuti e la portata delle molteplici ricerche che, fuori dall’Italia, da anni studiano i possibili approcci alternativi al ricorso alla pena per gestire e trattare efficacemente, grazie all’impiego di tecniche neuroscientifiche, i problemi connessi alla dipendenza da sostanze.

 

5. La ricerca dei contenuti della capacità di intendere e di volere deve, infine, fare i conti anche con l’art. 90 c.p., il quale, “d’imperio”, nega qualsiasi rilevanza, in sede di valutazione dell’imputabilità, agli stati emotivi e passionali: ma si tratta – come la dottrina più sensibile ha ormai da tempo intuito – di «una norma di ottuso sbarramento»[6], la quale sacrifica, sull’altare di presunte esigenze di prevenzione generale ritenute non altrimenti soddisfabili, una realtà, supportata, ormai, da plurime evidenze scientifiche: nelle forme estreme, gelosia, ira, paura possono accecare, far perdere il lume dell’intelletto, mandare una persona fuori di sé, escludendo la capacità di rendersi conto di quel che si fa e/o annullando i freni inibitori.

La ricerca dei contenuti della capacità di intendere e di volere deve, infine, fare i conti anche con l’art. 90 c.p., il quale, “d’imperio”, nega qualsiasi rilevanza, in sede di valutazione dell’imputabilità, agli stati emotivi e passionali: ma si tratta […] di «una norma di ottuso sbarramento», la quale sacrifica, sull’altare di presunte esigenze di prevenzione generale ritenute non altrimenti soddisfabili, una realtà, supportata, ormai, da plurime evidenze scientifiche

Come, del resto, attestano alcuni contributi pubblicati sulle pagine di questa rivista, e come abbiamo accennato, le neuroscienze hanno già fornito evidenze scientifiche del fatto che le emozioni, più del pensiero razionale, svolgono un ruolo centrale nella vita mentale dell’essere umano. In particolare, dalle conversazioni avute con gli studiosi della materia è emerso che:

i) qualsiasi accadimento, esterno o interno, è immediatamente percepito, e quindi elaborato e processato, dal nostro cervello mediante un pattern emozionale;

ii) più in generale, gran parte della nostra vita mentale è regolata dalle emozioni, non dal pensiero razionale;

iii) una quota significativa di individui, non limitata a coloro che soffrono di malattie mentali diagnosticate, non è in grado di controllare le proprie emozioni e, in ogni caso, nessuno di noi può esercitare sulle proprie emozioni un controllo pieno.

È partendo da queste acquisizioni scientifiche che anche il diritto penale dovrebbe intraprendere un percorso rivolto verso:

«Una concezione personalistica che riporti al centro di tutto l’uomo (e non il reo) nella sua irripetibile unicità, fatto di ragione e volontà ma anche di carattere, emozioni, sentimenti e incoscienza, che già in condizioni di normalità (figuriamoci se di anormalità) del procedimento motivazionale, ne limitano non poco le facoltà attentive o di giudizio»[7].

 

6. L’indagine sull’imputabilità segna, peraltro, solo il primo passo della più ampia indagine sulle componenti soggettive del reato, sulla attribuibilità psicologica del fatto di reato al suo autore, sui criteri che fondano, e al contempo graduano, la possibilità di muovergli un rimprovero personale: in una parola, sulla colpevolezza.

E scandagliando i criteri della colpevolezza ci imbattiamo presto nelle categorie concettuali della rappresentazione, volontà, colpa (una colpa che, nell’ipotesi di colpa incosciente, potrebbe anche essere priva di qualsivoglia substrato piscologico effettivo)[8], esigibilità: concetti che il penalista solo in termini rozzi potrebbe comprendere e maneggiare se non si abbeverasse a quella fonte del sapere alimentata dagli studi di psicologia e psichiatria, da ultimo arricchiti grazie alle nuove metodologie e tecniche di indagine offerte dalle neuroscienze[9].

Scandagliando i criteri della colpevolezza ci imbattiamo presto nelle categorie concettuali della rappresentazione, volontà, colpa (una colpa che, nell’ipotesi di colpa incosciente, potrebbe anche essere priva di qualsivoglia substrato piscologico effettivo), esigibilità: concetti che il penalista solo in termini rozzi potrebbe comprendere e maneggiare

7. In tema di imputabilità, colpevolezza, libero arbitrio, tante sono, quindi, le questioni aperte, o di recente ri-aperte, controverse, dibattute: tante le questioni la cui soluzione potrebbe oggi addirittura risultare ostacolata, o quanto meno compromessa, dall’attuale disciplina legislativa.

Per tutte, per una loro tematizzazione e composizione razionale e benefica per la collettività, risulterebbe fondamentale seguire il metodo di una scienza penale integrata[10]: una scienza penale che – per ragioni di convenienza, o in nome di presunte esigenze generalpreventive, o ancora in nome di una autoreferenzialità utile solo a perpetuare il ruolo del diritto penale quale strumento di potere – non continui ad essere sorda e cieca di fronte ai fondamentali stimoli che le possono giungere da altri campi del sapere scientifico.

Mettere in comunicazione il diritto penale con questi altri campi del sapere, veicolare le acquisizioni della biologia, della psichiatria, delle neuroscienze con un linguaggio e con categorie concettuali fruibili per il diritto penale – per la dottrina, per gli operatori e, auspicabilmente, per il legislatore del diritto penale –: questo è il compito che si prefigge il Cantiere che oggi inauguriamo e che speriamo possa diventare un fecondo luogo di incontro e confronto transdisciplinare sui concetti di imputabilità, colpevolezza, libero arbitrio.

Mettere in comunicazione il diritto penale con questi altri campi del sapere, veicolare le acquisizioni della biologia, della psichiatria, delle neuroscienze con un linguaggio e con categorie concettuali fruibili per il diritto penale […]: questo è il compito che si prefigge il Cantiere che oggi inauguriamo

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[1] E. Kandel, La mente alterata. Cosa dicono di noi le anomalie del cervello, Raffaello Cortina, 2018, p. 17.

[2] Ricordiamo, ex pluris, G. Marinucci, Il reato come azione. Critica di un dogma, Giuffrè, 1971, pp. 203 ss.

[3] D. Hume, An Enquiry Concerning Human Understanding, OUP Oxford, 1998, tr. it. Ricerca sull’intelletto umano, in Opere filosofiche, vol. 2, Laterza, 2008.

[4] La questione del libero arbitrio veniva ritenuta, già nella Relazione del Guardasigilli al progetto definitivo del codice penale, Roma, 1930, p. 43, questione «insoluta e forse insolubile», oltre che «del tutto estranea al diritto penale, in quanto la soluzione di essa non è affatto necessaria per la giustificazione razionale e per l’applicazione della legge penale».

[5] G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Zanichelli, 2009, p. 331.

[6] F. Palazzo, Prefazione a D. Piva, Le componenti impulsive della condotta. Tra imputabilità, (pre)colpevolezza e pena, Jovene Editore, 2020, p. XVII, ripubblicato in questa rivista, 27 gennaio 2021.

[7] D. Piva, Le componenti impulsive, cit., p. 8.

[8] Come da tempo riconosce la dottrina anglosassone: v., per tutti, G. Williams, Criminal Law. The General Part, Steven and Sons, 1961, pp. 53 ss.

[9] Si veda, ad esempio, per un convincente tentativo di ricostruire rappresentazione e volontà nel dolo quali elementi naturalistici esistenti in rerum natura, attraverso l’ausilio delle scienze non giuridiche che studiano i fatti psichici, G. Cerquetti, La rappresentazione e la volontà dell’evento nel dolo, Giappichelli, 2004.

[10] Una scienza penale integrata come, circa 140 anni fa, la immaginava F. von Liszt, Der Zweckgedanke im Strafrecht, 1883, tr. it. a cura di A.A. Calvi, La teoria dello scopo nel diritto penale, Giuffrè, 1962, p. 67, secondo cui «solo nel procedere parallelo dell’antropologia criminale, della psicologia criminale, della statistica criminale con la scienza del diritto penale, risiede la possibilità di una fruttuosa lotta contro la criminalità».

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